Dura, la vita dell’allevatore. Non bastano le tasse, gli obblighi imposti dalla Comunità Europea, la crisi. Adesso ci si mette anche l’inquinamento da Pfas a complicare l’esistenza di chi si guadagna da vivere con questo antico e nobile mestiere. «Capisco tutto – sbotta Eugenio Rigodanzo che in via Villaraspa a Lonigo ha in stalla una sessantina di mucche da latte -. La salute è un bene primario e va tutelato con tutti i mezzi, per cui ben venga la miriade di controlli a cui noi allevatori siamo sottoposti. Quello che non mando giù è che per verificare la presenza di Pfas nel pozzo privato che uso per l’allevamento debba pagare di tasca mia le analisi. A inquinare le falde non è stato mio nonno: quindi, se ci sono delle spese per colpa di altri, siano questi altri a pagarle».
A far arrabbiare Rigodanzo è una comunicazione arrivata dall’Ulss 8 con la quale si precisa che «dovendo l’acqua, destinata all’abbeverata degli animali, rispettare i valori di performance stabiliti dal ministero della Salute, si invita a procedere in autocontrollo al campionamento della stessa avvalendosi, per l’esecuzione delle analisi sui Pfas, di laboratori accreditati».
«E queste analisi – continua Rigodanzo – costano 262 euro, tutti a carico mio. Praticamente succede una cosa del genere: tu vieni da me senza chiedere niente, mi metti sottosopra la casa e vuoi che le spese per sistemarla le paghi io. Ma siamo matti? So che la Regione ha stanziato 40 mila euro per pagare le analisi dell’acqua che serve per irrigare i vigneti nella zona a rischio di contaminazione da Pfas. Perché noi allevatori non possiamo godere di un trattamento del genere?».
L’allevatore preleva l’acqua che serve per la sua stalla da un pozzo privato sul quale peraltro ha già effettuato tempo fa un prelievo che ha rilevato una presenza di Pfas di 22 nanogrammi per litro, abbondantemente sotto la soglia di rischio. Altre analisi vengono compiute con diversa frequenza sul latte prodotto.
«Ci sono controlli quotidiani per verificare la presenza nel latte di antibiotici o di micotossine. La stessa Ulss ha prelevato qualche settimana fa un campione del latte prodotto nella mia stalla per controllare proprio la presenza di Pfas, estendendo la campionatura ad altre aziende della zona, ma in questo caso non ci è stato chiesto di contribuire alla spesa. Ripeto: la salute prima di tutto ma anche la quadratura dei nostri conti ha la sua importanza».
Se dovesse risultare che il suo pozzo è inquinato al punto di non poter essere utilizzato, Rigodanzo dovrebbe allacciarsi all’acquedotto comunale. «Una vacca – spiega – beve 80 litri di acqua al giorno e molti altri ne vengono usati per lavaggi e altri lavori. Allacciandomi al contatore verrei a spendere 12 euro al giorno, una cifra insostenibile per la mia attività. Io sono abbastanza sicuro che l’acqua del mio pozzo è a posto. Però, se così non fosse e io avessi pochi scrupoli, potrei acquistareuna bottiglia d’acqua e ricavare da lì il campione da analizzare». ·
LE RICHIESTE ALLA PROCURA Lunedì scorso dieci famiglie, nove residenti nel Veronese e una nel Vicentino, hanno presentato ciascuna un esposto nelle rispettive Procure delle due città sulla questione Pfas. Si tratta di agricoltori, che per anni hanno utilizzato i pozzi inquinati per bere e per irrigare le loro culture – la mappatura dei pozzi privati a uso potabile è stata avviata solo nel 2014 e le ordinanze di divieto di utilizzare l’acqua per uso alimentare o irriguo sono per lo più successive -, ma anche di semplici cittadini che l’acqua contaminata l’hanno bevuta comunque e che adesso vivono nel terrore di aver riportato gravi danni alla salute. Si chiede alla Procura di accertare se in questo inquinamento siano rinvenibili fattispecie penalmente rilevanti. E, se sì, che si individuino i soggetti responsabili e si proceda nei loro confronti.
Il Giornale di Vicenza – 8 marzo 2017