La faticosa manovra-bis da 0,2 punti di Pil, pari a 3,4 miliardi, intimata all’Italia con una lettera del 17 gennaio a firma di Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici, rischia di entrare in una difficile fase di impasse. Dopo il lungo tira e molla con Bruxelles a colpi di richieste di informazioni sempre più dettagliate che hanno costretto il ministro dell’Economia Padoan a fornire rassicurazioni ufficiali e cifre precise in Parlamento, opposti punti di vista e divergenze sulle misure da adottare, soprattutto sulle tasse, stanno rendendo assai difficile la ricerca di una soluzione.
Dando fiato ad una tentazione che ambienti della maggioranza stanno coltivando: far slittare tutto dopo il Def o addirittura successivamente alle primarie del Pd, previste per il 30 aprile. A quel punto il partito di maggioranza avrebbe definito una cornice di stabilità al suo interno e alcune decisioni sarebbero più facili da prendere, anche se resterebbe sempre l’imminenza delle elezioni amministrative ad alimentare dubbi e cautele.
Del resto da Bruxelles dopo che il 22 febbraio è stato messo in canna il colpo della procedura d’infrazione per il debito in base all’articolo 126 comma 3, le pressioni – almeno in apparenza – hanno rallentato di intensità. Allora Moscovici rassicurò Roma negando l’esistenza di «ultimatum» e passò dalla linea di «adozione legale rapida» delle misure al termine più morbido di «entro aprile». Stando così le cose l’ipotesi del rinvio a dopo le primarie potrebbe, con una piccola forzatura, stare in piedi e addirittura c’è chi torna a pensare che la manovra-bis si potrebbe anche spacchettare e dividere in un paio di provvedimenti.
Nel frattempo si varerebbe il Def con un programma di risanamento e sviluppo a partire dal cuneo fiscale: per legge il provvedimento deve essere approvato entro il 10 aprile e consegnato a Bruxelles proprio il 30 aprile. Tornerebbe dunque a galla la tentazione di dettagliare il più possibile l’intervento nel Documento di economia e finanza e, solo successivamente, varare l’atteso e temuto decreto con l’aumento delle imposte da 1,5 miliardi, come da intese.
A favore della tattica attendista, oltre a motivi di equilibri interni, ci sarebbe il clima più conciliante che si respira in Europa a causa del populismo montante e degli appuntamenti elettorali in Olanda, Francia e Germania. Ma anche alcuni recenti dati si concilierebbero con una minore ansia: ad esempio il raggiungimento di quota 1 per cento di crescita del Pil nel 2017, come ha certificato ieri l’Ocse, e il buon andamento delle entrate che nel 2016 hanno superato la crescita del Pil.
Naturalmente Padoan non si è pronunciato sul tentativo di riscrivere il timimg della manovrina. Ma la quadra dei conti è sempre più complessa. L’unica posta che sembra assicurata è quella di circa 1 miliardo dovuta alla lotta all’evasione, il cosiddetto split payment, cioè lo Stato che trattiene l’Iva dai propri fornitori: lo scorso anno la misura è andata molto bene e ha raccolto il 5,5 per cento in più. In qualche modo anche gli 850 milioni di tagli alla spese messi nero su bianco da Padoan potranno essere trovati: in via tradizionale, con tagli semilineari, perché il meccanismo previsto dalla riforma del bilancio dello Stato sarà utilizzabile solo a regime.
La vera partita che segna lo stallo è tuttavia quella degli 1,5 miliardi di aumento di tasse. Di fattibile ci sono solo un centinaio di milioni dalle sigarette, mentre anche i 200 milioni che potrebbero arrivare dai giochi e dalla «tassa sulle vincite» sono in bilico. Mentre c’è un «no» deciso, a partire da quello di Renzi e di buona parte del Pd, all’aumento delle accise sulla benzina. Muro deciso anche sull’ipotesi dell’aumento dell’Iva tanto più dopo i dati di febbraio sull’inflazione all’1,5 per cento. Dunque, meglio aspettare. Ma il risultato dipenderà dalla pazienza di Bruxelles e dalla posizione di Padoan: sabato parlerà al Lingotto.
Repubblica – 8 marzo 2017