Ancora Pfas, le sostanze perfluoro alchiliche scaricate nella falda acquifera che serve una vasta zona a cavallo tra le province di Vicenza, Verona e Padova, e da lì all’acquedotto e infine nel sangue di migliaia di cittadini. La novità è che anche alcuni di questi ultimi, per la prima volta presentano esposti in procura chiedendo di accertare se vi siano responsabilità penali nell’inquinamento e di procedere nei confronti di chi ne è responsabile. Riservandosi inoltre di costituirsi parte civile nell’eventuale processo. Contemporaneamente, vicende parallele e non collegate, tra gli agricoltori c’è anche chi quantifica i costi dell’emergenza.
Non era mai accaduto fino a questo momento, nonostante l’inchiesta della procura di Vicenza sia stata avviata da tempo: inchiesta che ad oggi vede iscritti sul registro degli indagati attuali ed ex manager della Miteni, l’azienda di Trissino sospettata di essere la principale responsabile dello sversamento di Pfas. Finora si erano mossi politici, primi tra tutti i 5 Stelle, e associazioni ambientaliste. Ora è la volta delle famiglie. Dieci quelle che, assistite dallo Studio 3A, hanno presentato un proprio, dettagliato esposto alle procure di competenza, e cioè Vicenza e Verona: uno degli esposti è stato depositato negli uffici di Borgo Berga, i restanti in quelli scaligeri.
A firmare il documento cittadini che per anni hanno bevuto l’acqua contaminata e che ora convivono tutti i giorni con la paura di aver riportato gravi danni per la salute. Tra loro anche agricoltori, che hanno utilizzato l’acqua dei pozzi anche per irrigare le culture. Un preoccupazione che quindi non riguarda solo la propria salute ma anche quella dei clienti, di chi quella frutta e verdura cresciuta con l’acqua contaminata l’ha messa in tavola e consumata. Sì perché la mappatura dei pozzi privati a uso potabile è stata avviata solo nel 2014 e le ordinanze di divieto di utilizzare l’acqua per uso alimentare o irriguo sono per lo più successive. Famiglie con ciascuna una propria storia, tutte però accumunate dal dover convivere con l’insistente preoccupazione che l’inquinamento abbia o potrà provocare malattie anche gravi.
E’ tutto nero su bianco negli esposti, a cui gli esperti di Studio 3A hanno allegato anche i rapporti sullo stato dei luoghi dell’Arpav, decine di documenti dell’Istituto Superiore della Sanità e delle Usl locali, le deliberazioni adottate dalla Regione, i biomonitoraggi effettuati su incarico regionale e le ordinanze dei Comuni.
Ed intanto nella cosiddetta «area rossa», i Comuni dell’Ovest vicentino dove la falda è più inquinata da Pfas, gli agricoltori iniziano a fare i conti di quanto costerà loro l’emergenza. «Il costo aggiuntivo, per ogni azienda che si trovi un pozzo non a norma, sarà almeno dai cinque ai seimila euro in più» stima Claudio Zambon, vicepresidente vicentino di Coldiretti. Imprenditore agricolo a Sarego, nel cuore dell’area più contaminata fra Brendola e Lonigo, Zambon elenca le spese che gli allevatori si trovano ad affrontare: «Dopo la lettera arrivata a casa dall’Usl la scorsa estate tutti hanno dovuto far analizzare l’acqua del proprio pozzo, servizio che arriva a costare 130 euro. Ma per chi si è trovato acqua non in regola con il limite dei 500 nanogrammi litro, le spese sono molto maggiori».
Sono in tutto 18, per altrettante aziende, i pozzi non a norma riscontrati finora dall’Usl 8 nel Vicentino. «Le alternative per le aziende sono installare i filtri, con una spesa iniziale di 5mila euro e altri 2mila di ricambi ogni sei mesi, oppure collegarsi all’acquedotto – riprende Zambon – ma un allevamento medio, con 130 vacche, consuma almeno 10 metri cubi d’acqua al giorno. Circa 400 euro al mese. C’è poi da chiedersi se la portata della rete di acquedotti sarà sufficiente». Un allevatore di Lonigo, Antonio Dal Maso, ha una stalla con 250 animali, più della metà vacche da latte. «Il pozzo risultava non regolare, due mesi fa ci siamo allacciati all’acquedotto per evitare qualsiasi problema. Noi il latte lo vendiamo – spiega – stimiamo di spendere almeno 6mila euro in più l’anno, per questo. La beffa è che ci tocca pagare una tassa, per usare quel pozzo». Coldiretti annuncia che sulla vicenda darà battaglia, anche legale: «Se ci sarà un processo ci costituiremo come parte lesa» avverte Zambon.
«Non ho bevuto l’acqua contaminata però ho irrigato»
Paura, preoccupazione per la salute propria e altrui, continue analisi ai pozzi. Voglia di risposte. E di giustizia. Tra coloro che hanno presentato un esposto alla procura della Repubblica di Vicenza per il tramite dello Studio 3A c’è anche la titolare di un’azienda agricola di Vicenza, che ha un negozio di ortofrutta nel capoluogo. E che se anche non consumava l’acqua, la usava per i campi. «Noi siamo fuori dalla cosiddetta “zona rossa” ma quando, circa un anno fa, è esplosa in tutta la sua gravità la problematica Pfas ci siamo ovviamente preoccupati, e lo siamo tuttora – spiega l’imprenditrice – : l’acqua del nostro pozzo non la bevevamo, ma la utilizzavamo regolarmente per irrigare le colture». La donna racconta di come si sia attivata nell’immediato per far analizzare in laboratorio un campione di acqua, cosa che continua a fare anche ora. «Abbiamo subito dovuto sottoporre le nostre acque alle analisi e dobbiamo tenere continuamente monitorato il pozzo – racconta – : allo stato i valori sono entro i limiti, ma ci troviamo di fronte a un situazione così grave e a un pericolo incombente che non potevamo restare inerti». Di qui la scelta di affidarsi a dei legali e procedere. Con uno scopo ben preciso. «Abbiamo deciso di presentare quest’esposto in procura anche – precisa l’imprenditrice – per dare un segnale forte: perché questi fatti non devono mai più ripetersi».
«Non ci hanno ancora fatto esami: per ora stiamo bene»
Veleno nell’acqua. Invisibile, non certo innocuo. Capace di alterare il sapore dell’acqua. Sono stati proprio «il sapore e l’odore strano» il campanello d’allarme per una famiglia di Arcole che si serviva dell’acqua del pozzo per tutti gli usi domestici, e pure per abbeverare il terreno coltivato a orto tra le campagne.
Una delle nove famiglie, questa, che ha presentato l’esposto in procura a Verona. «Usavamo l’acqua del nostro pozzo per tutto: per bere e per irrigare l’orto – esordisce il capo famiglia -. C’eravamo accorti da tempo che c’era qualcosa che non andava, che l’acqua aveva uno strano sapore oltre che odore, ma non pensavamo che dietro ci fosse questo inquinamento». E dalla notizia dello sversamento, delle falde contaminate, l’uomo e i suoi parenti (moglie, figli, nuore, nipoti) hanno smesso di consumare l’acqua avvelenata. Ora, infatti, la consumano in bottiglia. «Da un anno e mezzo non utilizziamo più quel pozzo – fa sapere il veronese -: l’acqua da bere la prendiamo al supermercato e ci siamo dovuti allacciare all’acquedotto». Quanto alla salute non ci sono state conseguenze ma la paura c’è. Eccome. Coscienti che quanto ingerito fosse dannoso. «Non ci hanno ancora sottoposto ad esami: per ora stiamo bene – dichiara il capo famiglia – ma temiamo per la nostra salute: siamo certi che tutta quell’acqua inquinata che abbiamo bevuto per anni bene non ci ha fatto». (b.c. )
IL Corriere del Veneto – 7 marzo 2017