Tagliata di tonno fresco in crosta di sesamo, tartare di tonno, paccheri al tonno fresco e peperoni: sono solo alcuni dei piatti a base di tonno che troviamo nei menù di tanti ristoranti. Se consideriamo anche il successo della cucina giapponese, è evidente che ne mangiamo sempre di più, sia a casa che fuori. Il genere Thunnus comprende specie diverse per dimensioni, distribuzione e caratteristiche organolettiche. Il più comune, sia nelle scatolette che sui banchi delle pescherie e dei supermercati è il tonno a pinne gialle (Thunnus albacares). In conserva si trova anche il tonnetto striato (Katsuwonus pelamis). Il tonno rosso (Thunnus thynnus) invece, più pregiato, ha un altro destino.
Le popolazioni di questa specie, presente anche nel Mediterraneo, sono minacciate, a livello globale, dalla pesca intensiva, e il prelievo è regolato da un sistema di quote che stabilisce rigidamente quale quantitativo può essere pescato da ogni Paese UE: circa 3.300 tonnellate per l’Italia nel 2017. Le quote sono acquistate dai pescatori e per la grande maggioranza vanno a poche grosse flotte che pescano tutto il tonno autorizzato nel giro di pochi giorni e lo vendono per lo più vivo all’estero (soprattutto Malta o Spagna) dove viene allevato all’interno di grandi gabbie galleggianti e poi venduto, soprattutto in Giappone.
Cosa arriva allora sui banchi delle nostre pescherie? «Quasi esclusivamente tonno a pinne gialle – dice Valentina Tepedino, di Eurofishmarket – pescato soprattutto nell’Oceano Indiano o nel Pacifico (nel nostro Mediterraneo non è presente), in buona parte decongelato. Arriva fresco se trasportato in aereo ma con un forte impatto sul prezzo. La maggioranza dei ristoratori italiani che propongono tonno rosso, lo acquistano dalla Spagna, dove esistono dei centri specializzati nell’allevamento. Purtroppo ogni anno gli organi di controllo denunciano molti casi di tonno rosso pescato illegalmente in Italia che finisce nelle reti dei pescatori i quali, non avendo l’autorizzazione per catturarlo, dovrebbero buttarlo a mare. Spesso questi tonni sono venduti in modo illecito ai ristoranti e si trovano anche su alcuni banchi dei mercati rionali come “tonno pinne gialle”senza la documentazione relativa alla rintracciabilità.» È importante notare che le due specie si possono distinguere solo in presenza del pesce intero, mentre non è possibile distinguere la specie se ci troviamo di fronte un filone o un trancio.
Il tonno (sia rosso che quello pinne gialle) è un pesce pregiato, attorno al quale si muovono importanti interessi economici. La vendita a fettine o in tranci rende più difficile stabilire se il pesce che compriamo sia proprio della specie descritta sull’etichetta. Anche stabilire se il tonno è fresco risulta complicato. Di solito ci si affida al colore: un bel rosso vivo ispira fiducia, mentre siamo propensi a scartare le fette di tonalità più scura, tendente al marrone. Il bel colore rosso, però, può essere prodotto e mantenuto artificialmente.
Già nel 2004 Eurofishmarket (azienda di consulenza e ricerca nel settore ittico) segnalava il diffuso utilizzo di monossido di carbonio per bloccare i processi chimici responsabili della tonalità rosso brunastra e mantenere il colore rosso vivo per il tonno a pinne gialle. In Italia e in altre parti del mondo il monossido di carbonio non è ammesso come additivo nei prodotti ittici. «Si tratta di un additivo che non è dannoso per la salute – sottolinea Tepedino – ma toglie al consumatore la possibilità di distinguere il pesce fresco da quello che non lo è più. In questo modo sui banchi delle pescherie si trova spesso un prodotto dall’aspetto molto “bello” ma che, se non è stato conservato correttamente, potrebbe contenere elevate quantità di istamina.» La cattiva conservazione infatti può provocare la formazione di istamina, sostanza responsabile della sindrome sgombroide, reazione che comporta arrossamento della pelle, prurito, mal di testa, nausea, vomito e diarrea. L’eccesso di istamina è stato più volte riscontrato nel pesce mal conservato, nei ristoranti, tanto che il problema viene segnalato con una certa frequenza anche dal Rasff (Sistema rapido di allerta europeo per alimenti e mangimi), per i lotti di pesce importato.
C’è un altro problema, l’aggiunta del monossido di carbonio è di solito riservata ai tonni che non sono di prima scelta, spesso congelati e decongelati più volte, e serve ad allungarne la durata e a darne un aspetto migliore. Inoltre è una forma di concorrenza sleale verso chi non usa additivi. Oltre al monossido di carbonio, anche una miscela di nitriti e nitrati può essere impiegata in modo illecito per arrestare l’imbrunimento del tonno. I nitriti mantengono il colore rosso, mentre i nitrati funzionano da “riserva”, perché nel tempo sono trasformati in nitriti dai batteri. L’uso di questi additivi, non consentiti nel tonno, è ammesso in alcuni alimenti, come i salumi, con lo scopo di mantenere alla carne un bel colore rosso o rosato. La presenza di nitrati è molto criticata perché si tratta di additivi pericolosi per la salute: perché si possono trasformare in nitrosamine, potenzialmente cancerogene. Questo avviene in particolare quando sono sottoposti ad alte temperature, per questo sarebbe opportuno evitarli nel caso del tonno destinato solitamente a essere cotto.
L’ultima frontiera è data dai cosiddetti “estratti vegetali”: miscele di sostanze di origine vegetale, naturalmente ricche di nitrati, aggiunte solo per nascondere l’utilizzo di nitrati come additivi per “ravvivare” il colore. Anche questa procedura è stata recentemente proibita dalla Commissione europea con una lettera alle imprese di produzione, lavorazione e commercializzazione del tonno. Il problema è che non ci sono metodi analitici “ufficiali” per rilevare l’impiego di monossido di carbonio, di nitrati ecc. quindi la loro presenza non può essere verificata né contestata nel corso dei controlli.
«È scandaloso – commenta Tepedino – che non ci sia un sistema “ufficiale” per verificare se un filone di tonno viene trattato con monossido di carbonio, o nitrati, per correggere il colore. Il consumatore si è ormai abituato al tonno “sempre rosso” e il mercato, in mancanza di additivi leciti usa quelli di illeciti. È auspicabile che le catene della grande distribuzione facciano un fronte comune per contrastare questo problema abbastanza diffuso.» Da quasi un anno Eurofishmarket ha aperto una petizione per chiedere alle istituzioni di fornire dei metodi ufficiali che permettano di distinguere i prodotti “naturali” da quelli trattati con additivi illeciti e di obbligare tutti i produttori a segnalare in etichetta se un prodotto è naturale o trattato.
Valeria Balboni – Il Fatto alimentare – 7 marzo 2017