di Danilo Mainardi. Felice aveva una specialità: a far finta di niente era un artista. È stato il secondo fox terrier della mia vita, Felice, e aveva un caratterino niente male. Per dirla tutta, era un bell’attaccabrighe. Prima o poi imparerà, mi dicevo. Siccome però lo lasciavo fare, ne ha fatte di zuffe i primi anni della sua vita, ne ha prese di botte.
Sempre da cani più grossi di lui, a onor suo e del vero. Ma poi ha imparato. Non essendo stupido ha progressivamente preso coscienza delle sue possibilità offensive e difensive rispetto a quelle degli altri maschi, e già questo fu un bel passo avanti. Ma ha appreso anche di più: imparò, e ciò cambiò la sua esistenza, a gestire pacificamente i suoi rapporti con gli altri cani.
Felice e l’arte di far finta
Esiste un rito canino, a proposito di questa gestione, che gli etologi chiamano assessment , che in italiano può venir tradotto come «valutazione per confronto». Felice a spese sue divenne, un’esperienza dopo l’altra, un vero «cane di mondo». Un cane, cioè, capace di districarsi senza danni anche nelle situazioni socialmente più imbarazzanti. Come quando gli capitava di vedersi venire incontro, sull’altro lato della strada, un cagnone grosso e apparentemente terribile. Libero come lui. Ebbene, ormai non era più l’ingenuo giovincello pronto per ogni rissa, a sue spese aveva imparato. Così, incontrando un cane particolarmente preoccupante, semplicemente fingeva di non vederlo. Andava dritto per la sua strada guardando fisso davanti a sé come se stesse pensando a chissà cosa. Invece proprio a quello pensava, a quel cagnone terribile. E sapete come facevo a intuirlo? Perché la sua recita, altrimenti impeccabile, aveva una piccola falla: i peli della sua schiena erano tutti dritti. Fenomeno detto orripilazione. Il linguaggio del corpo, dunque, parlava chiaro. Altro che distratto: Felice stava semplicemente facendo finta di niente. Ottima strategia alternativa per scavalcare l’ostacolo senza ulteriori rotture di scatole (…). L’aneddoto, con ciò, è finito. Devo ora spiegare perché l’ho raccontato. Primo, per dirvi che il cane è un animale intelligente, o che almeno viene al mondo con le potenzialità per divenirlo. Secondo, per spiegarvi che l’intelligenza al cane si sviluppa se gli viene concesso di fare le sue esperienze, sociali e non sociali.
Dna o apprendimento?
Ammetterete che, qualsiasi cosa esattamente significhi, ci vuole pur sempre una bella mente per «fare finta». Senza contare che quel comportamento ha senso solo in presenza di un qualcuno che ci caschi, che creda nella recita. Non basta, perciò, possedere una mente fina, occorre anche che si tratti di una mente sociale. La mente di un animale che s’è evoluto per vivere in gruppo e, perciò, per leggere il comportamento altrui. C’è poi un’altra curiosità a proposito di Felice che «fa finta». Siamo sicuri che quell’astuzia fosse tutta farina del suo sacco? Che discendesse, cioè, esclusivamente da sue individuali esperienze, da osservazione e deduzioni partorite dalla sua mente fina, o non può invece darsi che una qualche tendenza innata a «fare finta» risulti scritta nel suo Dna? Eccoci così arrivati al classico dilemma: istinto o apprendimento? Sapienza dell’individuo o sapienza della specie? Ebbene, il «busillis» non è soltanto classico, è anche, per molti aspetti, superato. E meno male! Ma se vogliamo davvero sapere come stanno oggi le cose, non possiamo fare riferimento soltanto a ciò che conosciamo sul comportamento del cane, perché l’etologia cognitiva, la disciplina che s’interroga su questi problemi, è scienza comparativa e sempre ragiona in una prospettiva evolutiva.
Tornando a questo libro, perciò, anche se il cane ne sarà il protagonista, non sarà, né potrà mai essere, una sorta di monade. Tutt’altro: la storia naturale e culturale del cane è piena di finestre cui merita affacciarsi. Scoprire riferimenti, collegamenti. Innanzitutto con la nostra specie, perché il cane è un prodotto dell’uomo (la cosiddetta selezione artificiale), ma non solo. Incontreremo — e non potrebbe essere diversamente — molti altri animali (…). Solo così, e cioè mantenendo quella che chiamo l’ottica evolutiva, sarà possibile, secondo me, veramente capire, o almeno tentare di capire, la multiforme personalità del nostro amico intelligente (…).
Con il «capobranco»
Sono un osservatore nato e mi diverto a scoprire i comportamenti, talora inattesi e sorprendenti, degli animali in genere, dei miei cani in particolare. Per far ciò con profitto è essenziale che abbiano in me una fiducia totale, che riconoscano la mia leadership, e non perché mi temono, ci mancherebbe, ma per ben altre ragioni. Il bello è, e questo mi piace sottolinearlo, che i miei cani, quando chiedo loro di fare qualcosa, di norma la fanno. E volentieri. Si potrebbe dire che mi ubbidiscono, anche se questo non sarebbe proprio il verbo adatto. Fanno, in altre parole, ciò che chiedo perché mi sentono come il loro leader e — la natura del cane è fatta così — a loro piace accontentare il loro leader. Il che, se ci pensate, è qualcosa di sottilmente diverso dall’ubbidire. C’è più convinzione e meno costrizione in questo tipo di rapporto (…).
I cani mi piace scoprirli come persone piene di sfaccettature. Persone non umane ma ugualmente complesse e interessanti. Ognuna con la sua storia, il suo carattere, simpatie e antipatie. Con la sua personalità, insomma. Ma basta così. Capirete meglio leggendo e soprattutto — è a fare ciò che voglio incoraggiarvi — osservando il vostro cane con occhi ingenui. Liberi, cioè, da pregiudizi, frasi fatte e indottrinamenti vari. Scoprirete, allora, un altro cane. Quello vero.
(Il brano è tratto dalla prefazione del libro «Il cane secondo me»)
Il Corriere della Sera – 5 marzo 2017