I contratti integrativi del pubblico impiego come una giungla: il salario accessorio può rappresentare fino a metà dell’intera busta paga o solo un decimo, tanto che, guardando ai diversi comparti, tra il più basso e il più alto la differenza può arrivare a superare i ventimila euro. A sottolinearlo è l’Aran, l’Agenzia che rappresenta il governo nei negoziati con i sindacati e che presto dovrebbe ricevere dalla ministra della Pubblica amministrazione Marianna Madia il mandato ad aprire i tavoli sui rinnovi, dopo sette anni di blocco.
Nella classifica dei trattamenti accessori, vince la presidenza del Consiglio dei ministri, con 26.904 euro, mentre all’ultimo posto c’è il mondo della scuola con 3.266 euro. Nel primo caso le varie indennità e premi di produttività valgono il 47% dello stipendio complessivo, mentre nella scuola ci si ferma al 12%. Tra il valore minimo e quello massimo c’è un mondo variegato, dove le oscillazioni non mancano, dai ministeri con 6.816 (23% del totale) agli enti pubblici non economici come Inps e Inail (16.081, 38%), passando per le agenzie fiscali (11.322, 32%). Ovviamente le differenze scontano anche il rapporto che c’è tra il numero di dirigenti e il resto del personale, visto che la retribuzione dei «capi» si basa soprattutto sui risultati. E non solo: le discrepanze si spiegano anche con il fatto che alcune indennità fisse in alcuni settori ricadono sulle voci dello stipendio principale, mentre in altri su quelle accessorie.
Detto ciò, gli squilibri appaiono comunque netti. Tanto che nella riforma del pubblico impiego, presentata in Consiglio dei ministri giovedì scorso, si stabilisce che «al fine di perseguire la progressiva armonizzazione dei trattamenti economici accessori del personale delle amministrazioni», la contrattazione deve cercare una «graduale convergenza».
Il Corriere della Sera – 27 febbraio 2017