Paese che vai, piatto ufficiale che trovi. Spaghetti in Italia, caviale in Russia, riso in Cina, hamburger in America? Bè, non proprio, perché la diplomazia dello stare a tavola riserva talvolta delle sorprese. E perché in un mondo sempre più “politicamente corretto” anche le tradizioni gastronomiche rischiano di finire sotto accusa.
L’esempio più recente arriva dalla Germania, dove la ministra dell’Ambiente Barbara Hendricks ha ordinato di servire d’ora in poi soltanto cibo vegetariano biologico nelle mense e nei pranzi cerimoniali del ministero, mettendo al bando carne, pesce e soprattutto wurstel, il salsicciotto che molti tedeschi considerano il loro alimento nazionale. «Non vogliamo imporre alla gente cosa deve o non deve mangiare», ha spiegato la ministra, «ma soltanto contribuire alla protezione dell’ambiente dando il buon esempio, perché una dieta vegetariana è senz’altro migliore da questo punto di vista». Sui giornali e sui social network sono volate le polemiche, accusandola quasi di tradimento della patria (quella culinaria, perlomeno).
Ma non è certo il primo caso in cui una decisione o un commento di un rappresentate dei pubblici poteri scatena indignazione o, a seconda dei casi, ilarità. Proprio ieri il Sunday Times riportava in prima pagina la notizia che uno dei più ricchi e prestigiosi collegi dell’università di Cambridge ha fatto togliere dal menù delle mense di studenti e professori lo “stufato alla Giamaicana” e il “riso alla Tunisina”. Motivo: le definizioni in questione rappresentano uno “stereotipo culturale”, tanto è vero che piatti simili non esistono in Giamaica o in Tunisia. «Cari cuochi del Pembroke College», scrive uno studente su Facebook, «smettetela di mescolare mango e carne e di chiamarlo stufato giamaicano. Sono mezzo giamaicano io stesso e per favore mostratemi un posto in tutti i Caraibi in cui si mescolano frutta e carne». Un altro si lamenta che descrivere come “risotto alla Tunisina” un pentolone di riso, cavolfiore, datteri, tofu e yogurt fa soltanto ridere, «perché nessuno cucina niente del genere in Tunisia».
Gastronomia e politica, d’altra parte, si mescolano spesso. Nel 1939, quando Roosevelt invitò re Giorgio VI d’Inghilterra e sua moglie Elisabetta a cena alla Casa Bianca: il presidente americano servì loro una prelibatezza locale che i Windsor non avevano mai mangiato, gli hot-dog. Un paio di decenni più tardi, un altro presidente Usa, Lyndon Johnson, usa la “diplomazia del barbecue”, buffet, piatti di plastica e costolette di maiale arrosto, per ricevere il cancelliere tedesco Erhard. Più recentemente, al summit dell’Unione Europea sulla Brexit, nel giugno scorso, pochi dopo il risultato del referendum britannico, c’era un menù con pietanze in rappresentanza di tanti dei 28 (presto 27) paesi della Ue – tranne uno: la Gran Bretagna.
E poi, a parte il politicamente corretto o scorretto, ci sono le gaffes legate alla gastronomia politica: come quando Ronald Reagan, dopo avere tagliato il budget per i refettori scolastici, disse che c’era pur sempre una “verdura” nel menù: il ketchup!
Repubblica – 27 febbraio 2017