Nicola Lillo. Bisogna tornare indietro di tre anni e mezzo per trovare in Italia un tasso di inflazione annuo superiore all’1%, come quello registrato dall’Istat a gennaio. Era l’agosto del 2013 e l’indice dava un +1,2%. Ma il dato di questo inizio 2017 non deve ingannare, l’aumento dei prezzi al consumo è infatti dovuto alla crescita del costo dell’energia e soprattutto a quello di frutta e verdura, la cui produzione ha subito una battuta d’arresto per il maltempo che ha colpito gran parte d’Italia con gelo e forti nevicate. Eventi esterni dunque e non legati a una importante ripartenza dei consumi. L’inflazione ha comunque superato la stima iniziale, che era dello 0,9%, e l’aumento al lordo dei tabacchi è dello 0,3% rispetto a dicembre.
A trainare l’ascesa è l’aumento dei prezzi che «presentano maggiore volatilità», spiega l’Istat, quelli per altro il cui costo nel gennaio 2016 era in calo. E cioè il gasolio per i mezzi di trasporto, che su base annua è cresciuto del 13,9%, la benzina aumentata del 9,3%, mentre la crescita è del 20,4% per i vegetali freschi e del 7,3% per la frutta. Al netto degli alimentari freschi e dei beni energetici, l’inflazione di fondo è allo 0,5% e cala di poco rispetto allo 0,6% di dicembre.
Ma comunque a gennaio ci sono cenni di ripresa della domanda di prodotti di largo consumo. Il cosiddetto carrello della spesa, ad esempio, che contiene beni alimentari, prodotti per la cura della casa e della persona ha aumenti triplicati in un mese. Una chiara accelerazione del caro vita, ma sulla ripartenza dei consumi «starei attenta ad esultare – spiega Francesca Fraulo, analista e managing director Crif Rating – C’è stato un effetto climatico a gennaio che ha spinto di molto il prezzo dei beni alimentari freschi». Un fenomeno che non ha interessato solo l’Italia, «abbiamo visto le immagini dei supermercati vuoti a Londra, con le zucchine razionate».
Le associazioni dei consumatori lanciano l’allarme, perché con l’inflazione all’1% le ricadute sui prezzi faranno spendere quasi 300 euro annui in più a famiglia, di cui un terzo per alimentari. L’aumento dei prezzi è comunque diverso da città a città e da nessuna parte c’è deflazione. Trieste e Bolzano sono le città con i rincari più importanti, rispettivamente al 2,2% e 2,1%, seguite da Trento e Bari. In coda ci sono Torino con lo 0,8%, Roma e Ancona con lo 0,7% e Bologna a 0,6%.
La crescita dei prezzi in Italia è ancora distante da quella media dell’Eurozona, dove è all’1,8% su base annua. Tra i 28 Paesi dell’Unione europea invece, certifica Eurostat, la crescita dei prezzi è all’1,7%. L’inflazione più alta è in Belgio con il 3,1%; seguono Spagna con il 2,9%, Germania con l’1,9% e Francia con l’1,6%, mentre il dato più basso è in Irlanda dove l’inflazione è appena allo 0,2%. L’Italia tra i 28 è al ventesimo posto.
Se il trend di crescita dovesse essere confermato, nei prossimi mesi potrebbe portare la Banca centrale europea guidata da Mario Draghi a rivedere la politica monetaria. La Bce ha infatti l’obiettivo di mantenere un’inflazione leggermente sotto al 2% e con i numeri attuali potrebbe essere quindi rallentato o sospeso il programma di acquisto di titoli di Stato, il Quantitative easing.
Un’eventualità che creerebbe problemi all’Italia e al suo debito pubblico, che è sotto la lente di Bruxelles. Ma anche in questo caso la dottoressa Fraulo dice di «aspettare qualche mese. Anche sul dato europeo bisogna essere cauti. Può essere un fuoco di paglia, un effetto ciclico e non stabile. Attendiamo il primo trimestre per incrociare alcuni dati e capire se questa crescita è una prospettiva sostenibile per fine anno».
La Stampa – 23 febbraio 2017