In Cadore non hanno dimenticato. Due infarti in due paesi diversi nello stesso momento. Una sola ambulanza, sparata da Belluno lungo i tornanti che risalgono la montagna veneta. Un’ora di corsa, il medico ha dovuto scegliere: un uomo si è salvato, l’altro è morto. La lotta per la vita, sulle Alpi, sembrava finita assieme alle guerre del Novecento. Invece rieccola qui.
Si combatte anche per venire al mondo. L’ultimo caso pochi giorni fa nelle valli Giudicarie trentine. Una mamma viene rispedita a casa, nel paese di Borgo Chiese. Nell’ospedale centrale di Trento i letti sono finiti. Le doglie però non lo sanno e non misurano la distanza: il bambino nasce nella notte sotto una galleria, in ambulanza. Solo un miracolo ha scongiurato l’emorragia. «Quando ero bambina — dice Maria Antonia Ciotti, sindaca di Pieve — si moriva sulla “Cavalera”, la vecchia statale di Alemagna. In montagna bastava un niente, in ospedale non ci arrivavi ed era fatta. Poi, con la ricostruzione, i reparti si sono spinti nelle valli. Il diritto alla salute, come l’alfabetizzazione, è stata una conquista sociale decisiva. Ora torniamo indietro: deve essere chiaro che così lo Stato abbandona il territorio e condanna alla marginalità milioni di cittadini».
Lo svuotamento della sanità periferica, concentrata nei capoluoghi e nelle pianure, è il disarmo estremo dell’Italia che si ritira nelle città dei voti e dei consumi. Si è cominciato dai tribunali e dalle scuole: poi gli alimentari e i negozi, i ricoveri e le piccole aziende, le Poste. Adesso tocca agli ospedali, ridotti a implorare il permesso di resistere, aggirando i numeri stabiliti da Roma. Come ladri che rubano la carità fiscale.
Per chi sta in montagna il destino è segnato: se un servizio ti è necessario, devi andare via. L’ultimo attacco non investe solo l’arco alpino: scende lungo gli Appennini e sconvolge anche le terre alte del Sud e delle Isole. Decine gli ospedali chiusi o a rischio, un centinaio quelli costretti ad aprire solo di giorno. Non è più tempo di comitati e di raccolte firme, di manifestazioni gestite dai partiti. Il mondo dell’umiliata montagna italiana, per evitare di essere trasformato in un deserto aperto solo nelle stagioni turistiche, ora ha deciso di muoversi tutto e insieme. Nascere e morire, nella normalità quotidiana, non può dipendere da un elicottero.
A metà febbraio si presenterà l’alleanza dei primi undici Comuni che, dal Veneto al Piemonte e alla Toscana, ha scelto di lottare unito per un «nuovo modello di sanità pensato per chi vive nelle cosiddette periferie d’alta quota». I fondatori del patto contro i «tagli standard» sono Sondalo e Chiavenna, Domodossola e Valsesia, Asiago e Pieve di Cadore, Silandro, Cles e Cavalese, Barga e Portoferraio. Decine di altre municipalità, in tutte le regioni, stanno aderendo al primo appuntamento, fissato a Trento. Il punto, nella sua drammaticità, è semplice. «Una società avanzata — dice Giovanni Zanon, presidente della Comunità di valle di Fiemme e Fassa — deve trovare soluzioni aggiornate per offrire parità di servizi a chi risiede nelle città e nei paesi. O lo Stato deporta tutti nelle metropoli, oppure cambia il modello dei suoi servizi collettivi ».
Una sanità di qualità è un diritto essenziale, ma assieme all’istruzione viene silenziosamente smantellato. I manager delle aziende pubbliche e i dirigenti del ministero della Salute assicurano che solo le grandi cliniche garantiscono prestazioni specialistiche d’eccellenza. Questione di numeri: l’allenamento, anche in camice bianco, conta. Per i medici, grazie alla tecnologia, non è già più così. In Svizzera gli ospedali sono al top anche dove i parti non sono più di trenta all’anno. Per gli ammalati, con sole e senza ghiaccio, è sufficiente non avere il reparto più vicino a oltre due ore e 45 curve in auto.
Il nemico comune viene definito “schema-Formigoni”, la “lombardizzazione” della sanità nazionale. «Si invoca l’eccellenza clinica — dice Giuseppina Vanzo, assessore di Cavalese — poi si tagliano i medici, si riducono reparti e posti letto, si chiudono i punti nascita e infine si cancellano gli ospedali pubblici per lasciare spazio alle cliniche private. Anche nascere avrà un listino prezzi: più salirai di quota e più costerà. Partiti e burocrati pensano ai soldi, al potere e agli interessi personali, non al bene delle persone».
A Sondalo, sopra Sondrio, sperimentano con successo l’alternativa della condivisione. I medici dell’ospedale centrale ruotano in quello di montagna e gli specialisti di base fanno turni anche in corsia. Il livello delle cure pubbliche è uguale per tutti, i costi sotto controllo. La “razionalizzazione”, parola d’ordine digerita pure dai sindacati, è salva. Cento chilometri in alta quota non sono come cento chilometri in pianura. L’eliambulanza non vola di notte e con il tempo cattivo: indispensabile per l’emergenza, non può essere la risposta alla normalità. In Piemonte il 77% dei voli verso i paesi riguarda casi che non avrebbero reso necessario nemmeno il pronto soccorso. Si chiama «effetto- insicurezza», il limbo della paura, l’incubo di non arrivare in tempo nell’ospedale della città meno lontana.
«La Costituzione — dice Roberto Rigoni Stern, sindaco di Asiago — stabilisce che quello alla salute è un diritto incomprimibile, la sicurezza prevale anche sul pareggio di bilancio. La vita costa, non è un affare. L’attacco di Stato agli ospedali di montagna spiega l’esodo dei giovani verso le città, il crollo della natalità nelle valli alpine e appenniniche».
Le conseguenze sono più vaste. Private di teste e di laureati residenti, dai medici ai giudici, dagli insegnanti agli ingegneri, le terre alte d’Italia vengono consegnate agli anziani e agli sportivi. «Capisco il declino nazionale — dice Lucio Pizzi, sindaco di Domodossola — ma un ambulatorio diurno di pronto intervento non può essere barattato con un ospedale. Il mio impiega 700 persone, è la prima azienda del territorio. La maternità, con rianimatore, anestesista, pediatra e ostetrica, è il cuore di una struttura sanitaria. I casi problematici ormai si evidenziano con largo anticipo: basta centralizzare questi, come si fa nei Paesi scandinavi. Esternalizzare l’atto naturale di venire al mondo anticipa la morte di un ospedale, ridotto a cronicario di una comunità in agonia».
Senza reparti garantiti, anche gli specialisti fuggono. Oggi trovare un pediatra, in montagna, è come dare la caccia allo yeti. La nuova alleanza dei Comuni che vogliono salvare la sanità in alta quota, proporrà al governo incentivi per neolaureati e pensionandi. «Le corsie più remote — dice Maria Antonia Ciotti — possono allargare il patto tra generazioni, unendo freschezza ed esperienza. Il tirocinio della specialità universitaria può essere decentrato in strutture pluri-sede. Con centri di qualità la prospettiva si rovescia: per abbattere le attese, sono i cittadini a poter salire nei paesi per curarsi».
Lo scontro, si capisce, non è tra medicina di qualità e assistenzialismo lottizzato. Sui “malati di periferia”, nei Paesi che nessuno sa dove sono, l’Italia si gioca la possibilità di restare dignitosamente una nazione.
Repubblica – 9 febbraio 2017