Un dato e qualche indizio.Il dato lo ha fornito qualche giorno fa l’Istat: a dicembre 2016 l’export italiano in Russia è cresciuto del +9,2 per cento. Gli indizi giungono dai dati gennaio-ottobre 2016 delle dogane russe, rielaborati dall’Ice di Mosca: nei primi 10 mesi del 2016 abbiamo perso ancora: -5,9 per cento. Male la meccanica (-21,3%), l’arredo-design (-15,4%), ma cresce la moda (+16,6%), la farmaceutica (+16,5%) e il food (+6,7 per cento).
Se a tutto si aggiunge un primo allentamento delle sanzioni da parte del neo presidente Trump– gli Usa possono tornare a fare affari coi servizi segreti di Mosca – ecco che la Russia si prepara a tornare nei radar del commercio internazionale. Il motore, lentamente, si riavvia. Per la prima volta, da 3 anni, nel 2017 il Pil del Paese dovrebbe invertire la tendenza, +0,8 per cento. E il nostro Paese dovrebbe smettere di collezionare segni meno .
Certo, per l’Italia c’è ancora molta strada da fare prima di riuscire a recuperare un “conto” da 4 miliardi di euro e 80 mila posti di lavoro diretti persi, tanto c’è costato l’effetto combinato, dal 2014, di sanzioni commerciali e crisi economica (innescata dal doppio crollo, prezzo del barile e del rublo).
Una crisi che alcuni settori del Made in Italy hanno pagato in maniera particolarmente accentuata. Come il tessile/calzature(un miliardo), la meccanica strumentale (700 milioni), il food (300 milioni). Il conto però non è stato salato solo per l’Italia.
Secondo il Vienna Institute for International Economic Studies, l’intero perimetro Ue ha perso, in questi anni, circa 44 miliardi di export e 900mila posti di lavoro.
Eppure un dato non torna. Sempre secondo i dati delle dogane russe, elaborati dall’Ice di Mosca, emerge che se l’export italiano a Mosca è calato, nei primi 10 mesi del 2016, del 5,9%, quello Usa del 6,1% e quello tedesco del 6,2%, la Francia ha fatto un exploit del +48 per cento.
«Noi italiani – ha spiegato il presidente di Confindustria Russia, Ernesto Ferlenghi – abbiamo sempre tradizionalmente venduto attraverso agenti e distributori locali, magari con pagamento anticipato. In questi anni, però il business in Russia è cambiato radicalmente. Le sanzioni hanno costretto i russi a svegliarsi ed occuparsi di tecnologie – ha proseguito Ferlenghi – e a dare più spazio a chi investiva e apriva produzioni in loco, magari in joint venture con aziende locali. In Russia si contano complessivamente 400 aziende italiane (comprese le filiali commerciali). I tedeschi sono 3mila da prima delle sanzioni e organizzati in joint venture o stabilimenti con parti di lavorazione sul posto. Ad esempio, per il settore dell’oil&gas, cosa che noi con i nostri distretti non siamo riusciti a fare. Localizzando le produzioni e utilizzando capitali misti, queste imprese non sono state toccate (o lo sono state marginalmente) dalle sanzioni. Ragionando in rubli hanno anche retto meglio la crisi economica. Mentre il nostro modello di business ci ha penalizzati molto di più».
Soprattutto, ha concluso Ferlenghi, «i rappresentanti di altri paesi sono riusciti ad adattarsi velocemente a questi cambiamenti, come i francesi che nel 2016 hanno addirittura aumentato il volume degli investimenti. O i cinesi, che hanno sostituito con successo imprenditori europei».
Nel 2013 l’Italia era il secondo esportatore verso la Russia fra i Paesi Ue (dietro alla Germania) con 10,8 miliardi di euro di vendite verso Mosca. Il 2016 si è invece chiuso con un export da 6,5 miliardi (-8,3% sul 2015). Peccato che già il 2015 si fosse chiuso a -11,8% e il 2014, a sua volta, a -25,4 per cento.
Soprattutto, fornitori terzi o prodotti di imitazione si siono accaparrati le quote di mercato faticosamente conquistate col lavoro di anni. Vale soprattutto per il cosiddetto Italian Sounding di cibi e bevande. Solo la produzione casearia russa è cresciuta del 30 per cento. Nel distretto marchigiano della calzatura molte aziende, chi produceva quasi solo per la Russia ha chiuso o resta in forte sofferenza, sostituito dai turchi. Stessa sorte per tessile, macchinari e mobili. Fornitori concorrenti: Argentina, Armenia, Cina, Egitto, Israele, Marocco, Sudafrica e Turchia.
«Per questo – ha concluso Ferlenghi – occorre che il sistema Italia si dia, sin da ora, una nuova prospettiva sulla Russia. E dobbiamo trovarla in fretta».
Laura Cavestri – Il Sole 24 Ore – 8 febbraio 2017