Le grida «al voto, al voto!» che hanno cominciato a levarsi subito dopo la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum alzano un terzo ostacolo sulla strada accidentata che porta al rinnovo dei contratti pubblici, e che per arrivare al traguardo deve dare risposta a due incognite di peso: dove si trovano le risorse per garantire gli 85 euro di aumenti medi assicurati dall’intesa firmata con i sindacati il 30 novembre scorso e come si ricostruisce la cornice delle regole per far ripartire gli accordi, con i tecnici del governo al lavoro sul nuovo decreto per il pubblico impiego. Perché sette anni di blocco contrattuale e una riforma, quella del 2009, rivoluzionaria nelle intenzioni ma inattuata nei fatti non si superano in un giorno.
Il pubblico impiego che prova oggi a uscire dall’eccezionalità della crisi per ritrovare una condizione ordinaria è un mondo molto differenziato. A dirlo è il ricco dossier di tabelle pubblicato dalla Ragioneria generale dello Stato con il nuovo conto annuale del personale, che a spulciarle offrono più di un’indicazione interessante. Partiamo dai soldi, il tema più delicato. In termini di retribuzione lorda effettiva, il dipendente pubblico medio ha perso tra 2011 e 2015 il 6,2%, e tutto sommato gli poteva andare peggio perché l’inflazione del periodo si è via via assottigliata fino ad azzerarsi.
Ma molto più interessanti sono i numeri dei singoli ex-comparti che sono alla base della media generale: nello stesso periodo, la busta paga media nella scuola ha lasciato sul campo il 10,4%, nelle agenzie fiscali l’arretramento è dell’8%, nelle Università il 7,4% e Regioni e autonomie locali il 6,4 per cento. Se però gli enti locali sono nei territori ad Autonomia speciale, lo stipendio medio è arrivato a fine 2015 praticamente inalterato, mentre prefetti e magistrati hanno spuntato un leggero aumento e nelle Autorità indipendenti si è registrata addirittura un’impennata uguale e contraria rispetto alla media: +6,2 per cento .
Queste dinamiche sono figlie in realtà di due fattori: il turn over, che ha fatto uscire dalla Pa i dipendenti più anziani, e quindi titolari di buste paga cresciute (lentamente) nel tempo grazie all’anzianità, e li ha sostituiti con pochi nuovi ingressi pagati meno. Nel frattempo il blocco di stipendi e contratti ha congelato il valore nominale dei tabellari, mentre in molti comparti le riorganizzazioni più o meno forzate hanno colpito le indennità aggiuntive: è il caso del Fisco, al centro della complicatissima battaglia giudiziaria sui dirigenti incaricati, oppure degli enti locali, dove negli anni scorsi le ispezioni della Ragioneria generale e le contestazioni della Corte dei conti hanno bersagliato i contratti decentrati di molte realtà regionali e comunali, da Roma a Firenze fino a tante amministrazioni medie e piccole. Il risultato di queste dinamiche si incontra ancora una volta nelle cifre della Ragioneria generale: fra 2011 e 2015 le indennità medie si sono ridotte in termini reali del 9,2% (contro il -5,4% degli stipendi base), ma nelle agenzie fiscali il taglio è stato del 17,8% e negli enti territoriali del 15 per cento. Anche in questo caso risalta la distanza crescente con gli Statuti speciali, dove invece le indennità sono cresciute del 9,8 per cento. Una sforbiciata netta si è registrata nelle Autorità indipendenti, dove le voci accessorie sono state ridotte del 35,7% ma la mossa è stata più che compensata dall’aumento del 28,8% delle parti fisse, con una dinamica che ha fatto arricciare il naso anche alla Corte dei conti.
Di tutto questo dovranno tenere conto le trattative sui nuovi contratti, che per partire davvero hanno però bisogno di un quadro di regole certe (si veda l’altro articolo in pagina) e soprattutto di capire come si troveranno i soldi per arrivare agli 85 euro medi di aumento scritti nell’intesa di fine novembre: aggiunto ai 300 milioni stanziati ma non utilizzati nel 2016, il miliardo messo a disposizione dei contratti dal fondone della legge di bilancio porta a un aumento da 35-40 euro medi. La strada da coprire è ancora lunga, e anche in salita in vista di una manovra 2018 già schiacciata da quasi 20 miliardi di clausole di salvaguardia.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 30 gennaio 2017