Se non si riscrivono le regole di distribuzione dei premi di produttività non è possibile nemmeno sedersi al tavolo per il rinnovo dei contratti pubblici. I criteri scritti nella legge Brunetta del 2009, e mai attuati proprio per il blocco dei rinnovi, imporrebbero di azzerare i premi al 25% dei dipendenti, imponendo quindi al nuovo contratto di tagliare la busta paga di centinaia di migliaia di dipendenti.
Il problema è noto, e aiuta a spiegare come mai dopo 18 mesi dalla sentenza della Consulta (la 178/2015) che ha imposto di rinnovare i contratti le trattative non sono nemmneno partite. Salvo inciampi dell’ultima ora, però, l’attesa dovrebbe essere quasi finita, perché nelle prossime due-tre settimane dovrebbe sbarcare in consiglio dei ministri il decreto sul pubblico impiego, attuativo della delega Pa (si veda anche Il Sole 24 Ore di sabato). Sulla produttività si punta a riportare la palla ai contratti fissando nella legge solo il principio che vieta una distribuzione indiscriminata dei premi. Ma nel nuovo decreto ci sarà anche un altro tema cruciale: quello dei precari.
Il primo, nonostante le molte stabilizzazioni e sanatorie del passato, rimane un problema eterno nella nostra pubblica amministrazione. Ancora nel 2015, come mostra l’ultimo conto annuale pubblicato nei giorni scorsi dalla Ragioneria generale, le «unità annue» di lavoro flessibile 81.897, cioè il 2,7% dell’anno prima. Un contratto da 9 mesi vale 0,75 «unità», quindi le persone interessate possono superare le 100mila. Spesso, però, i titolari di questi contratti lavorano da anni con la Pa, grazie alle proroghe periodiche che sono arrivate per esempio nelle Province o nella sanità (nel Milleproroghe invece si sta discutendo dei precari Istat e dell’Istituto superiore di sanità): ma questo “precariato stabile”, oltre a complicare la vita ai diretti interessati, rischia di non piacere nemmeno all’Europa, che già in questi anni si è pronunciata con sentenze della Corte Ue e potrebbe decidere misure più strutturali se manca una contromisura.
Il tentativo, ambizioso, di metterla in campo dovrebbe arrivare proprio dal nuovo decreto, che deve tradurre in pratica il passaggio dal sistema degli organici a quello dei «fabbisogni» previsto dalla legge delega. La premessa è quasi lapalissiana: se una persona lavora da anni con un’amministrazione, vuol dire che l’amministrazione ha bisogno di quella figura. La conseguenza è però un po’ più complicata, perché nella Pa si entra solo per concorso (lo dice la Costituzione, articolo 97) e una stabilizzazione tout court è fuori dalle possibilità oltre che dalle intenzioni del governo.
Per far dialogare bisogni e concorsi, allora, le opzioni messe in campo dalle bozze del decreto sono due: la possibilità di assumere chi, oltre a essere impegnato da anni (il numero è da definire), ha già superato un concorso, e il riconoscimento di una riserva (non inferiore al 50% secondo le ultime bozze) ai precari storici che però da un concorso non sono mai passati. Due possibilità, queste ultime, che potrebbero aggirare anche il blocco delle assunzioni per le amministrazioni locali che non hanno rispettato i vincoli di finanza pubblica nel 2016. Sui meccanismi si sta lavorando nei confronti tecnici di questi giorni fra governo e sindacati, con l’obiettivo di disegnare una sorta di piano di rientro dal precariato che avrà bisogno però di almeno 2-3 anni per completare il percorso. A dirlo sono ancora una volta i numeri della Ragioneria, che contano 57.537 «unità» precarie in Regioni ed enti locali (oltre 10mila si concentrano nei territori a Statuto speciale) e 30.686 nella sanità. Il testo si preoccupa poi di frenare la creazione di nuovo precariato, in due modi: lo stop a contratti flessibili negli enti interessati da processi di riassorbimento e l’addio definitivo alle co.co.co. nella pubblica amministrazione.
Il Sole 24 Ore – 30 gennaio 2017