di Dario Di Vico. Gli ultimi dati Istat sugli incrementi di occupazione (novembre 2015-novembre 2016) segnalano una chicca: le nuove occupate sono 160 mila contro 41 mila uomini. I flussi dunque vanno in direzione rosa ma analizzando il caso di Milano, pur con dati non omogenei temporalmente, la sorpresa raddoppia.
Anche in termini di stock di occupati — e non solo flussi — l’avanzata femminile sta riducendo il divario storico: sono 421 mila le donne tra i 15-64 anni che lavorano a Milano e 486 mila gli uomini. Parliamo di milanesi residenti ma anche dell’esercito di pendolari giornalieri/settimanali, se invece estrapoliamo il dato dei soli residenti la riduzione del gap di genere è di 4 punti in soli 7 anni e il tasso di occupazione femminile è arrivato al 64,4% (anno 2014). I dati sono di oltre due anni fa perché l’Istat ha comunicato da poco le rilevazioni sui 13 principali Comuni d’Italia e da questo input è nata l’indagine Equipe 2020, condotta per Italia Lavoro da Lorenza Zanuso e Roberto Cicciomessere. Il risultato della ricerca ci regala un’altra scoperta: l’avanzata rosa non si limita ai lavori a tradizionale vocazione femminile (insegnanti, infermiere) ma invade la fascia alta. «Dal 2008 al ‘14 — spiega Cicciomessere — è cresciuto il numero delle donne che esercitano professioni altamente qualificate mentre gli uomini stravincono tra gli imprenditori e nelle professioni tecniche». Dove si sono fatte strada le milanesi? Sono funzionarie di banca e analiste finanziarie, agenti assicurative e di Borsa, scrittrici e giornaliste, interpreti e traduttrici, avvocate e magistrate, specialiste delle risorse umane e dirigenti delle agenzie del lavoro, professioniste della moda, del marketing e della comunicazione, tecniche e scienziate della vita. In linea con la Milano terziarizzata dove l’86% dei residenti, lavora nei servizi.
L’identikit
Le milanesi che lavorano si dividono in tre gruppi: più di un terzo (il 36%) sono delle professionals , la platea più numerosa (47%) è composta da diplomate 50enni che svolgono un lavoro impiegatizio o tecnico, il rimanente 18% viene definito unskilled , donne in buona parte in età matura, spesso straniere, che svolgono lavori non qualificati nei servizi alla persona, nelle imprese di pulizia e nella grande distribuzione. Il part time rimane femminile (35% contro 15%) e concorre a determinare un fenomeno di sotto-inquadramento anche nelle professioni più qualificate. La rilevazione sui Comuni è interessante perché come annota la sociologa Anna Maria Ponzellini, «più i dati si avvicinano al territorio più somigliano alle persone che incrociamo per strada». E infatti le novità milanesi ci proiettano nella sociologia della famiglia: è il tramonto del maschio che portava lo stipendio, fulcro del vecchio mercato del lavoro. Milano comincia ad avere tassi di occupazione europea grazie anche alle partite Iva al femminile e mostra una nuova propensione per il lavoro indipendente di fascia alta, una maggiore flessibilità per la conciliazione famiglia/lavoro e la voglia di sottrarsi ai meccanismi rigidi di carriera aziendali (che ancora privilegiano gli uomini). Resta uno zoccolo duro di presenza femminile nelle attività di cura alla persona, sanitarie e insegnamento, e questo riguarda anche le ventenni di oggi che non disdegnano questi percorsi lavorativi.
Il confronto con l’estero
I risultati di Equipe 2020 sono così interessanti da consentire una comparazione europea con le città unanimemente considerate pro-women come Stoccolma e Londra. Spiega la sociologa Lorenza Zanuso: «Da decenni l’aumento dei tassi di occupazione femminile a Milano è legato al crescere del livello di istruzione dagli anni 70 in poi. Con la crisi l’aumento delle occupate ha interessato soprattutto le over 45 che hanno potuto tenersi stretto il lavoro che avevano o sono rientrate nel mercato da condizioni di inattività, mentre le 20-29enni hanno incontrato più problemi di accesso». Le giovani però sono motivate e scommettono sulla formazione più dei loro coetanei: le occupate laureate di questa fascia d’età sono il 60% contro il 35% dei maschi. «L’investimento nella formazione e nella professione è per loro un fattore identitario» commenta Zanuso. Le differenze con Stoccolma sembrano premiare Milano sul fronte della qualità dell’impiego. Il tasso di occupazione delle residenti nella capitale svedese (Ocse) è più alto di 12 punti (76,3%) con un’incidenza del part time elevata, circa un terzo delle donne. La grande differenza sta nel tipo di occupazione: a Stoccolma concentrata nella Pubblica amministrazione e nell’insegnamento. Le professioni-gabbia lo sono ancora in virtù di scelte fatte nel ‘900 per limitare l’afflusso di manodopera dall’estero: gli svedesi scelsero di puntare su un allargamento del mercato del lavoro alle donne supportandolo con investimenti pubblici nel welfare. La sorpresa è che Milano invece sembra aver rotto quella gabbia, in maniera che definiremo anarchica. La spinta femminile è legata a fattori culturali, viene dal basso più che da una pianificazione o dall’adesione a un modello, prescinde quindi dall’esistenza di una rete di welfare a misura di donna. «L’originalità di Milano — sostiene Maurizio Ferrera, docente di Scienze politiche all’Università Statale — è che per sopperire alle carenze del pubblico si è sviluppata una rete di welfare privato creando un mercato professionale per le stesse donne. La spinta dal basso ha generato nuove occasioni di lavoro dirette e indirette». Più lavanderie, servizi di babysitter, colf hanno permesso alle donne di uscire di casa, lavorare e a loro volta avere la disponibilità economica per pagare quei servizi.
Il paragone con Londra si impone perché rappresenta l’esempio-clou di terziarizzazione. Il tasso di occupazione femminile misurato dall’Ocse è in linea con quello milanese attorno al 63-64% ma con una particolarità: la forte immigrazione di donne straniere (39% contro il 21% di Milano) pesa di più perché lavorano molto meno, sono casalinghe. Le inglesi di Londra invece lavorano più delle milanesi per effetto soprattutto dell’ingresso delle madri-lavoratrici nel mercato e in particolare per il fenomeno delle single con figli che negli anni 90 ha conosciuto un boom. È difficile però un confronto diretto Milano-Londra sull’estensione della presenza femminile nel terziario pregiato anche per la disomogeneità dei dati e dell’area territoriale misurata. Nell’ambito del lavoro dipendente Milano sembra avere un maggior ventaglio di posizioni occupate da donne, Londra recupera con una tendenza di lungo periodo all’auto-impiego femminile ad alto contenuto scientifico e tecnico. Solo in questo settore le londinesi sono cresciute del 50% nel giro di 20 anni dai 90 agli anni Dieci.
Le single
Tornando a Milano c’è un altro elemento che si impone: l’alta percentuale di single. Tra le residenti in città meno della metà (47%) ha figli. «Un dato — sostiene Zanuso — che apre molte domande: sulle decisioni di maternità influiscono vari fattori, dalla risorse familiari alla sicurezza del lavoro, dagli orientamenti dei partner alle credenze religiose. Ma è certo che in un città dove l’80% delle donne adulte lavora mettere al mondo figli è un impegno che tra le giovani alle prime esperienze tende a essere differito mentre non tutte le adulte possono o vogliono realizzarlo». Commenta Ferrera: «Sulla decisione di non aver figli pesa anche la volontà di mantenere stili di vita e libertà personale. E vale soprattutto per le nuove generazioni». Il tutto, commenta Zanuso, «in una Milano che purtroppo non è una città children friendly».
Il Corriere della Sera – 29 gennaio 2017