di Tommaso Labate. «Siamo qui per presentare il nostro brano al festival di Sanremo», prova a scherzare Giovanni Toti. Alla sua destra, accenna un sorriso Roberto Maroni. Alla sua sinistra, impassibile, Luca Zaia. È mercoledì 25 gennaio e i tre governatori del centrodestra, col pensiero all’imminente pronunciamento della Consulta sull’Italicum, incontrano i giornalisti nella sala stampa di Montecitorio per parlare delle proposte su sicurezza e immigrazione che devono sottoporre al ministro dell’Interno Marco Minniti, con cui hanno un appuntamento.
Hanno predisposto, ovviamente, anche una diretta streaming sui social network che hanno lanciato, ciascuno col proprio profilo Twitter, usando la parola «Trilaterale». Perché «Trilaterale» è il modo in cui chiamano l’informale gabinetto di cui fanno parte, per l’appunto, loro tre. In qualità di presidenti delle giunte regionali, rispettivamente, di Liguria, Lombardia e Veneto.
Nei corridoi della Camera, però, la conferenza stampa è stata «attenzionata» dai berlusconiani doc non certo per le proposte su sicurezza e informazione. Ma perché, è la voce che circola con una certa insistenza, il tridente Zaia-Maroni-Toti potrebbe venir fuori col primo progetto politico nuovo della fase che si è aperta l’altro ieri con la sentenza della Consulta. Una «cosa» che nascerebbe ufficialmente con l’intento di riunificare il centrodestra. Ma che potrebbe trasformarsi, qualora la rinascita del blocco Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia fallisse, in una lista in grado di correre alle urne sfruttando il proporzionale venuto fuori dall’Italicum. Che porterebbe in dote verosimilmente a Matteo Salvini, visto che Silvio Berlusconi gioca la partita della Grande Coalizione, un nutrito gruppo di eletti.
Chi conosce il «piano», finora rimasto riservato ai massimi livelli, lo paragona al «partito dei governatori e dei sindaci» che vent’anni fa, prima che Massimo D’Alema liquidasse l’ipotesi bollando i promotori come «cacicchi», doveva nascere a sinistra. Oggi quell’idea starebbe per nascere sulla sponda opposta. E il lavoro dev’essere non proprio in fase embrionale se è vero che, tra i berlusconiani della cerchia ristretta, più d’uno — scherzando, ma non troppo — ha segnalato all’ex premier che «ci tocca sperare che non si chiamino Lega d’Italia, fregando a Salvini la parola Lega e a noi la parola Italia». Gira addirittura un mezzo schema di organigramma che assegnerebbe a Zaia, fresco di primo posto tra i governatori più popolari secondo la classifica del Sole24ore (Maroni è terzo e Toti tredicesimo, con un gradimento in netta crescita rispetto ai voti presi alle elezioni), il ruolo di frontman .
«Non c’è nulla di tutto questo», è la smentita che Toti oppone a chiunque gli chieda ufficialmente della «cosa». Ma un dato di fatto c’è. Lo scenario che si è aperto dopo la sentenza della Consulta allontana ancora di più il consigliere politico dal «consigliato» Berlusconi. Se quest’ultimo accarezza l’idea di una corsa solitaria di Forza Italia in vista di un accordone post-elettorale col Pd, il governatore ligure pensa all’esatto opposto. «La sentenza salva il premio di maggioranza», dice agli amici, «per cui correre col centrodestra unito, insieme a Salvini e Meloni, è un dovere. Dobbiamo provarci, a prendere il 40%. Perché gli altri, da Renzi a Grillo, ci proveranno. Correre da soli, lasciando intendere che tanto poi c’è l’accordo col Pd, sarebbe fare come il Pescara, che ormai gioca in Serie A con la certezza della retrocessione». Non a caso, al contrario di Berlusconi, che non la vede di buon occhio, Toti parteciperà alla manifestazione leghista di domani. «Vado alle manifestazioni di tutti quelli che sostengono la mia giunta», spiega. E chissà che non sia domani il giorno giusto per disseminare, insieme a Zaia e Maroni, qualche indizio del «partito dei governatori» che potrebbe nascere presto. Molto presto.
Il Corriere della Sera – 27 gennaio 2017