Nicola Pinna. Il guaio non è tanto la bottiglia che galleggia o la busta nera che finisce sulla spiaggia. Il danno è diventato irrimediabile quando la plastica è già invisibile: semplicemente nascosta, ma non scomparsa. Sciolta, mimetizzata nell’acqua, ma presente ovunque. Al largo, e anche sottocosta, in profondità e ovviamente in superficie. La più pericolosa è quella che gli studiosi chiamano «microplastica» e il Mediterraneo ne è totalmente infestato.
In zone uniformi e difficilmente controllabili: uno dei punti maggiormente contaminati si trova a ovest della Sardegna, a qualche miglio dalla costa di Alghero: quasi due frammenti di plastica ogni metro cubo d’acqua. Ma anche il tratto di mare tra Corsica e Liguria non è certo in buone condizioni. Altra zona rossa è quella tra Sardegna e Tunisia, mentre i dati che sembrano essere più confortanti emergono dai prelievi fatti dai biologi al largo della Toscana.
I primi a fare le spese dell’invasione di plastica sono i pesci: la scambiano per plancton e la ingeriscono. Il risultato finale è semplice: la nostra zuppa di pesce è sempre più frequentemente una zuppa di plastica. «Da alcuni anni stiamo studiando la presenza della plastica nel Mediterraneo, concentrandoci sui frammenti più piccoli, quelli grandi massimo 5 millimetri, praticamente invisibili all’occhio umano – spiega Andrea De Lucia, responsabile scientifico dell’équipe che ha esaminato gran parte dell’azzurro che circonda l’Italia -. Le microplastiche sono quelle che gli animali marini ingeriscono perché non sono in grado di distinguerle dal cibo. È facile comprendere che la conseguenza di questo fenomeno sia l’ingresso di queste sostanze nella catena alimentare».
La cartina che viene fuori dallo studio curato dagli esperti dell’Istituto per l’Ambiente Marino Costiero del Cnr di Oristano dimostra che la minaccia galleggiante si sposta da una zona all’altra. Un’area più a rischio non c’è, anche perché l’inquinamento invisibile segue le correnti e raggiunge quasi in modo uniforme tutto il Mediterraneo. L’area presa in esame è vastissima: il Tirreno e anche lo spazio blu che arriva fino alla Spagna e all’Africa. A partire dal 2012 i prelievi sono stati continui, decine, con l’aiuto di uno strumento innovativo: si chiama Manta Trawl e sfrutta una specie di retino che consente di catturare anche gli inquinanti millimetrici.
«I pescatori ogni volta che portano su le reti raccolgono decine di chili di plastica – spiega Marco Schintu, professore di Igiene ambientale all’Università di Cagliari – stiamo facendo un’indagine con il supporto della compagnia di navigazione Sardinia Ferries, che ci ha consentito di installare un particolare strumento su un traghetto che attraversa quotidianamente il tratto di mare sia tra Sardegna e Toscana sia quello tra Tolone e Ajaccio. Ogni giorno, dunque, siamo in grado di acquisire dati sulla qualità del mare e sulla presenza di sostanze inquinanti. Sulla contaminazione dei mari da qualche anno c’è maggiore controllo, ma l’ambiente marino continua a raccoglie tutto quello che arriva attraverso i fiumi e i porti».
La plastica che si nasconde tra le onde finisce sulle nostre tavole, ma spesso uccide gli animali marini. A farne le spese più di tutti sono le tartarughe marine. Il Cnr di Oristano, lo stesso che si è messo a studiare la minaccia galleggiante, gestisce una specie di ospedale che in pochi anni ha salvato 500 esemplari di «caretta caretta». «Tutti gli esemplari che sono stati ricoverati nei nostri laboratori, cioè l’85% delle tartarughe monitorate, avevano ingerito frammenti di plastica – spiega Andrea Camedda, uno dei ricercatori dell’équipe -. Le conseguenze possono essere molto gravi, fino alla morte».
La Stampa – 15 gennaio 2017