La Stampa. «Con la presente si comunica che al momento non sono più disponibili barelle per garantire l’osservazione dei pazienti nel dipartimento di emergenza e accettazione», dispaccio delle tre di notte del 27 dicembre dell’ospedale Maria Vittoria di Torino. «Sette pazienti in area rossa piena. Non disponibili posti monitor», stesso giorno, stessa città, “Ordine Mauriziano Umberto I”.
Storie di ordinaria follia nei pronto soccorso d’Italia. Il grande imbuto della nostra sanità malata. Dove il territorio fa poco filtro. Che conta 40 mila letti tagliati in 10 anni che rendono un’impresa trovare posto in reparto a pazienti lasciati anche giorni e giorni su scomode e affastellate lettighe nelle astanterie o nei corridoi. Con la conseguenza che poi finiscono per restare bloccate nei parcheggi anche le ambulanze che senza barella non possono partire. Il tutto reso più drammatico da una carenza cronica di personale. Mentre chi resta, stanco e demotivato, pensa alla fuga. Magari per andare a far soldi nelle cooperative che poi affittano a gettone gli stessi camici bianchi pagati però quattro volte tanto i dipendenti.
Il pronto soccorso non è solo la prima linea della nostra Sanità, ma è anche l’emblema dei suoi mali atavici. Anche se quando questi si riversano dove a volte si lotta per la vita le conseguenze diventano tragiche. Simeu, la Società scientifica della medicina di emergenza e urgenza dalla ricognizione di studi internazionali in materia, stima un aumento del 30% della mortalità quando i dipartimenti di emergenza sono affollati. E la stessa causa è correlabile a incidenti ed errori nei pronto soccorso, dove «l’affollamento è associato a ritardi nel riconoscimento e nel trattamento di condizioni a elevato rischio evolutivo, come infarto miocardico, ictus cerebrale, polmoniti», riporta un documento della stessa società scientifica.
Nei nostri pronto soccorso mancano di fatto 3 medici su dieci e solo il 58% dei camici bianchi che ci lavorano è un dipendente. Gli altri vengono pescati qua e là tra i medici convenzionati, che specialisti non sono. Oppure si fa ricorso sempre più massicciamente alle cooperative che affittano i medici a gettone, con tariffe orarie da tre a sei volte superiori a quelle dei loro colleghi interni. Tanto che Giuseppe Busia, presidente dell’Anac, l’Authority anticorruzione, tempo fa ha preso carta e penna per sollecitare al titolare della Salute Schillaci e al ministro dell’Economia Giorgetti un decreto che faccia chiarezza sull’utilizzo dei gettonisti, fissando dei criteri che stabiliscano prezzi congrui. Perché secondo Simeu sono oramai 15mila i medici in affitto che erogano 18 milioni di prestazioni l’anno nei nostri ospedali. Spesso giovani neo laureati senza specializzazione alle spalle. O magari ortopedici spediti in rianimazione piuttosto che cardiologi alle prese con fratture. Pagati fino a 90 euro l’ora mentre ai dottori dipendenti per fare prestazioni aggiuntive se ne danno 60, che diventano poi 40 netti.
Controsensi di una programmazione sanitaria che fa acqua da tutte le parti.
«Ma più ancora della carenza cronica di personale -spiega Fabio De Iaco, presidente Simeu- il problema è quello dell’uso improprio del pronto soccorso, perché arrivano da noi pazienti che non vengono filtrati dal territorio e, soprattutto, il fenomeno diffusissimo del bording. Ossia dei pazienti assistiti da noi anche per giorni in lettiga perché nei reparti non ci sono letti disponibili». E in queste condizioni finisce per ritrovarsi anche chi dovrebbe avere assistenza in un hospice o in casa propria. «E se proprio devono finire in ospedale che almeno abbiano il diritto di andarsene non da soli su una barella, ma nel letto di un reparto, stringendo la mano dei propri cari», ci tiene a dire De Iaco.
Ma troppo spesso non è così. Perché il medico di famiglia non si trova, la guardia medica si limita a consigliare di chiamare il 118 e così l’imbuto del pronto soccorso si ingolfa sempre più. La controprova viene dal fatto che, dove ci sono medicina di gruppo o case della salute aperte tutto il giorno i codici bianchi e verdi si riducono ai minimi termini. Anche se non pochi di questi sono di chi al pronto soccorso ci va non perché ne abbia bisogno, ma per non pagare il ticket e saltare le liste di attesa.
Ad aggravare il tutto c’è poi la conseguenza dei tagli selvaggi ai posti letto subiti dai reparti. Così in attesa di «salire in reparto» si passa fino a una settimana nell’astanteria di un pronto soccorso, ha rilevato un’indagine del Tribunale dei diritti del malato. In questo modo però medici e infermieri invece di affrontare le emergenze finiscono per sostituirsi ai vari specialisti, facendosi carico di assistenza e accertamenti diagnostici. Un sovraccarico di lavoro che costringe a saltare i turni di riposo, a fare in media sette notti al mese, il tutto per uno stipendio base che è di 2.800 euro quando parliamo di medici, di 1.500 per gli infermieri. Che arrivano poi a 1.900, ma dopo 30 anni.
«Spero di riuscire ad anticipare al prossimo anno i 200 milioni stanziati dalla manovra per il personale dei pronto soccorso», aveva detto alla vigilia delle votazioni sulla manovra il ministro Schillaci. Ma l’emendamento non è stato nemmeno sottoposto al voto.
Così non ci si può poi stupire se i più dal pronto soccorso fuggano. E nemmeno a dire che ci siano chissà quali giovani leve pronte a rimpiazzare chi lascia. L’ex ministro Speranza nel tentativo di tamponare questa emorragia aveva portato il numero di accessi ai corsi di specializzazione a 1.100, ma il 61% dei posti non è stato assegnato perché nessuno si è presentato, documenta un’indagine del sindacato medico Anaao. Intanto più del 50% dei malati che necessitano di una risposta urgente aspetta per non meno di 9 ore in sala d’attesa. Anche se in alcune realtà, rileva un’altra indagine del Tribunale dei diritti del malato, si superano i tre giorni. Esperienza vissuta nell’ultimo anno da 300mila assistiti, intrappolati nell’imbuto dei pronto soccorso, specchio di una sanità da riformare. —