Mentre annuncia un prossimo riordino complessivo del sistema previdenziale, il governo interviene nella legge di bilancio per il 2023 su indicizzazione e perequazione delle pensioni. Le nuove misure rischiano però di contraddire l’impostazione contributiva.
Modifiche al sistema pensionistico
Il governo annuncia un riordino complessivo del sistema pensionistico in tempi brevi. Speriamo non sia vero perché il da fare è così tanto da richiedere riflessioni e approfondimenti che brevi non dovrebbero essere. Nell’attesa, si propongono provvedimenti la cui provvisorietà non giustifica gli errori da cui sono affetti. Questo articolo si concentra sul trattamento minimo e la perequazione.
Il trattamento minimo
Nei modelli “a ripartizione” sono consentite forme di solidarietà delle pensioni più alte verso quelle più basse purché l’aumento delle seconde sia interamente finanziato dal taglio delle prime, senza gonfiare la spesa pensionistica oltre il limite del gettito contributivo. Nel sistema retributivo italiano la situazione non era affatto questa. Infatti, i massimali di retribuzione pensionabile (che tagliano le pensioni più alte) coprivano in parte modesta l’integrazione al trattamento minimo (che aumenta le più basse). L’integrazione si configurava quindi come “assistenza” pagata dalla fiscalità generale. Quest’ultima si faceva anche carico di assistere gli anziani non?pensionati mediante la meno generosa pensione sociale. La riforma Dini riconobbe che lo stato non doveva avere figli e figliastri e scelse di contrastare il rischio di povertà di tutti gli anziani mediante un unico ombrello a carattere universale, cui fu dato il nome di assegno sociale.
In ossequio alla salvaguardia dei diritti acquisiti, l’integrazione al minimo fu mantenuta per le pensioni esistenti e, con eccesso di zelo, per quelle future spettanti ai lavoratori in essere alla fine del 1995. In linea di principio, l’assegno sociale protegge anche tali categorie, benché, in pratica, non possa farlo per la banale ragione che è finora rimasto ingiustificatamente inferiore al minimo. Da quest’ultimo furono quindi escluse le pensioni interamente contributive spettanti ai lavoratori assunti a partire dal 1996.
In questo quadro di migliorabile chiarezza, è piovuta la pensione di cittadinanza che si è disordinatamente sovrapposta a entrambi gli istituti. Bene ha fatto il governo a rimuoverla dal 2024.
Meno meritevolmente, la manovra prevede un aumento del trattamento minimo (in aggiunta alla normale perequazione ai prezzi) di 7,88 euro nel 2023 da sostituire con uno di 14,19 nel 2024, rispettivamente pari all’1,5 per cento e al 2,7 per cento dei 525,38 euro in vigore nel 2022. Infatti, delle due l’una: volendo saggiamente preservare l’eredità della riforma Dini, l’ambizione alla maggior tutela dei più deboli dovrebbe concretarsi nell’aumento dell’assegno sociale. Volendo invece fare marcia indietro, il trattamento minimo dovrebbe essere non solo aumentato, ma anche esteso ai lavoratori assunti a partire dal 1996. La scelta è di fondamentale importanza per l’assetto del welfare. Potenziare un istituto a esaurimento appare insensato.
Non contento dell’errore, il governo promette di elevare il minimo a mille euro nel corso della legislatura. È contradditorio che, da un lato, il reddito di cittadinanza sia soppresso perché incoraggia il lavoro nero e l’evasione contributiva, e dall’altro siano annunciati livelli minimi di pensione che (tenuto anche conto delle maggiorazioni sociali, dell’assegno aggiuntivo e della quattordicesima mensilità) determineranno un analogo risultato.
La perequazione
Per il biennio 2023?2024, la manovra ha ripristinato la peculiare perequazione “per fasce” inventata dal governo Letta, dopo un solo anno dal ritorno alla normale perequazione “per scaglioni” adottata dalla generalità dei paesi che indicizzano le pensioni ai prezzi. La differenza è che la prima suddivide la pensione in “fette” (scaglioni) sempre meno indicizzate, mentre la seconda indicizza l’intera pensione in base alla classe d’importo (fascia) di appartenenza.
Gli effetti delle due forme possono essere confrontati mediante un paragone con la tassazione del reddito personale. La tassazione “progressiva” prevede scaglioni colpiti da aliquote fiscali crescenti. La tassazione “piatta” (promessa dal governo entro la legislatura) colpisce l’intero reddito con la stessa aliquota, senza tuttavia “personalizzare” quest’ultima differenziandola da individuo a individuo. Ebbene, la perequazione delle pensioni per fasce produce una personalizzazione del genere.
Infatti, l’inflazione è una tassa piatta che colpisce la pensione. La perequazione per scaglioni la restituisce in misura inferiore a quelli più alti, col risultato che la tassa diventa progressiva. Viceversa, la perequazione per fasce restituisce l’inflazione in ugual misura a tutti gli scaglioni di una stessa pensione, benché in minor misura alle pensioni delle fasce più alte. In tal modo, la tassa diventa “collettivamente” progressiva restando “individualmente” piatta. Ciò genera discontinuità e perfino il sorpasso delle pensioni più basse di una fascia a opera di quelle più alte della fascia precedente. Per rimediare all’inconveniente, occorrono arzigogolati algoritmi che non aiutano la trasparenza.
Meno rimediabile è l’incongruenza della perequazione per fasce con la singolare previsione che la pensione maturata con “quota 103” sia erogata nel limite di cinque volte il minimo, e la porzione residua (ove esista) sia custodita dall’Inps fino a quando il “quotista” raggiunge i requisiti richiesti dalle “regole Fornero”. Infatti, sorge il problema di come perequare le due porzioni prima che si ricongiungano. La perequazione di quella erogata in base alla fascia di appartenenza della pensione complessiva non mancherebbe di suscitare l’insoddisfazione dei quotisti.
La scelta della perequazione per fasce sembra motivata dall’intento di ottenere risparmi di spesa più rilevanti. In realtà, agli stessi risparmi è possibile arrivare rimodulando adeguatamente i parametri della perequazione per scaglioni senza compromettere la correttezza della progressività.
La manovra definisce le sei fasce indicate nella prima colonna della tabella 1 in termini del trattamento minimo in vigore nel 2022. Nella seconda colonna le fasce sono tradotte in euro/mese. Nella terza è indicata l’inflazione restituita, sia in percentuale, sia in valore. Nella quarta è infine indicata la tassa da inflazione residua, cioè l’erosione del potere d’acquisto.
Se nel 2023 l’inflazione ripetesse quella del 2022, le pensioni sopra 4.203 euro mensili subirebbero un’erosione biennale compresa fra l’8 e il 9 per cento, in aggiunta a quelle degli anni precedenti e ai saccheggi dei “poco costituzionali” contributi di solidarietà che la Consulta ha ritenuto non ripetibili all’infinito.
La disinvolta persecuzione delle “pensioni d’oro” dovrebbe fare i conti con la mal digerita filosofia contributiva che si fonda sulla commisurazione della pensione al “merito”, cioè ai contributi versati. Infatti, il merito delle pensioni interamente retributive è a forma di U, cioè scende dalle pensioni basse a quelle medie, per poi risalire passando alle alte. Le ragioni sono dettagliatamente spiegate dallo scrivente su Il Sole-24Ore del 28 luglio 2018 e ribadite su la Repubblica del 15 agosto dello stesso anno. Basterà qui richiamare i massimali di retribuzione pensionabile e l’applicazione di aliquote di rendimento decrescenti dopo il primo massimale, l’assenza di limiti alla retribuzione imponibile, l’anzianità contributiva tagliata dal tetto di 40 anni e il pensionamento tardivo che abbrevia la durata della pensione.
Nell’ambito delle pensioni miste, liquidate dopo la Fornero, la quota contributiva è meritata per definizione, mentre il merito di quella retributiva deve essere valutato caso per caso.
Dotarsi di un meccanismo diverso
In forme corrette o sbagliate, la perequazione ai prezzi sopravvive a distanza di 27 anni dalla riforma Dini, benché il sistema contributivo italiano non possa meritare il nome che porta fin quando non si dota di un meccanismo di perequazione del tutto diverso. Sarebbe un passo importante per accorciare la distanza che lo separa dai sistemi contributivi nordeuropei.
Nulla di male se il meccanismo sottraesse ai governi la leva della perequazione finora usata per governare la spesa. Infatti, un sistema contributivo compiuto sarebbe capace di trovare da solo l’equilibrio finanziario e, finalmente, i politici non dovrebbero più occuparsi di pensioni.
Deindicizzazione delle pensioni tra paradossi e iniquità
La proposta di deindicizzazione delle pensioni non tiene conto del reddito complessivo, ma solo di quello pensionistico. È una scelta che produce disparità ed è sempre meno giustificata col crescere del numero di pensioni calcolate col metodo contributivo.
Gli interventi sulle pensioni
Il disegno di legge di bilancio ripropone una deindicizzazione delle pensioni: non è una novità, in varie forme è stata adottata sin dal 2011.
Anche in considerazione delle argomentazioni in tema di durata, distinzione per le pensioni contributive, adeguatezza e ragionevolezza delle riduzioni da sentenza costituzionale, la versione in vigore per il 2022 era costituita da deindicizzazioni parziali e crescenti dei trattamenti pensionistici “per scaglioni” o “per quote”: i trattamenti fino a quattro volte il minimo (oggi a 524 euro mensili, 6800 euro annui) erano rivalutati al 100 per cento dell’inflazione fino a importi lordi annui di 26.810 euro, al 90 per cento per la quota eccedente fino a cinque volte il minimo, al 75 per cento per l’ulteriore quota eccedente.
Si superava così il meccanismo preesistente “per classi”: al superamento di ogni soglia fissata, il minore adeguamento ai prezzi (cioè la riduzione del potere di acquisto) si applicava non alla sola quota eccedente, ma all’intero importo. Ne derivava anche un paradosso: chi prima dell’adeguamento percepiva una pensione di poco più bassa rispetto a una soglia, ne otteneva una maggiore rispetto a chi stava appena sopra la stessa soglia.
Con la manovra per il 2023 viene ripristinata e rafforzata la deindicizzazione per classi, cioè con adeguamento all’inflazione sugli interi importi lordi al 100 per cento fino a quattro volte il minimo, 80 per cento fino a 5 volte, 55 per cento fino a 6 volte, 50 per cento fino a 8 volte, 40 per cento fino a 10 volte, 35 per cento oltre. Sugli importi netti, data la progressività dell’Irpef, la riduzione del potere di acquisto sarà più forte.
I punti critici
In primo luogo, va sottolineato che nel governo del bilancio pubblico sussistono molteplici obiettivi di politica economica, ma non esiste un collegamento doveroso – da taluni delineato – tra finanziamenti e spese interni a una macro-voce di spesa come quella previdenziale e assistenziale. A riprova, nell’Italia repubblicana i notevoli deficit della gestione previdenziale e assistenziale sono stati coperti con la fiscalità generale, cioè con un mix di provvedimenti di spesa e di entrata, oltre che con indebitamento.
Con quest’ultimo intervento, tuttavia, si mette in atto un’azione redistributiva che anziché colpire redditi personali globalmente elevati (o, meglio sarebbe, un elevato “reddito equivalente” identificato in ambito familiare) per intervenire a favore delle pensioni integrate al minimo, si colpisce invece una specifica fattispecie, il reddito pensionistico individuale, ignorando ogni altro reddito e dunque anche quello globale personale.
La priorità di reperire risorse influenza poi anche il livello minimo di reddito, penalizzato, in misura crescente, a partire da circa 1.600 euro mensili netti: non certo “pensioni d’oro”. Questo aspetto, la concatenazione pluriennale delle riduzioni (che pare prospettare una deindicizzazione ormai strutturale) e il coinvolgimento delle pensioni interamente contributive precedentemente escluse sembrano delineare ragioni di illegittimità costituzionale, per una misura volta a fare cassa: circa 4 miliardi nel 2023, meno nel 2024 se l’inflazione scenderà dall’attuale 10 per cento per la “spesa familiare”.
Una seconda perplessità, strettamente collegata, riguarda la progressiva attenuazione della motivazione per un prelievo sulle sole pensioni, in quanto contenenti una quota attuarialmente “regalata” in caso di calcolo in tutto o in parte col metodo retributivo. Quel metodo prescindeva infatti sia dal volume dei contributi versati, sia dagli anni residui per i quali mediamente si sarebbe fruito del trattamento pensionistico.
Ma già con la riforma Dini si era fissato il meccanismo di calcolo contributivo (para attuariale) pro-rata a partire dal 1° gennaio 1996 per i contribuenti con meno di 18 anni di contribuzione. Successivamente, erano stati rimossi alcuni aspetti che indebolivano il meccanismo di calcolo attuariale (quali un’aliquota di contribuzione del 32,7 per cento per i dipendenti contro un’aliquota di computo del 33 per cento, oppure le troppo differenziate aliquote per tipo di reddito da lavoro in presenza di quote rilevanti di calcolo retributivo). Infine, con la riforma Fornero, dal 2012 tutte le residue quote pensionistiche ancora soggette al calcolo retributivo sono state trasformate pro-rata in calcolo contributivo. Cosicché negli anni è cresciuta notevolmente la quota di pensione frutto attuariale del proprio “accantonamento previdenziale”.
Oltre a ciò, crescono le pensioni interamente calcolate col metodo contributivo, quali ad esempio quelle da “opzione donna” o dai transitati nella gestione separata. Per tutti costoro, dall’idea di ignorare gli altri redditi e subire un prelievo di solidarietà solo sul proprio reddito pensionistico, anche quando di entità modesta, risulta un’ancor più evidente disparità, con tratti di iniquità.
La terza e non meno importante causa di perplessità è collegata alla natura e condizione di pensionato, specie in un sistema a ripartizione, ma ormai palesemente ispirato ai principi attuariali. Quando si va in pensione cambia profondamente, e in misura crescente col tempo, la capacità di reagire agli eventi economici avversi, come l’inflazione. Il pensionato non ha la possibilità di variare i prezzi dei propri servizi, come può accadere agli autonomi, o contrattare i recuperi dell’inflazione, come può accadere ai dipendenti. Nella decisione sul pensionamento (quando consentito) entra dunque anche la valutazione del potere di acquisto, atteso come costante fino alla morte, proprio in virtù dell’indicizzazione.
Intervenire sui già pensionati riducendone il potere di acquisto, oltre che una disparità di trattamento rispetto agli altri redditi, è anche uno spiazzamento economico profondo, tanto più pesante quanto più alta è l’inflazione, quanto più si abbassano le percentuali di adeguamento al crescere del reddito (oggi fino al 35 per cento, cioè con perdita di potere di acquisto vicina ai due terzi dell’inflazione) e quanto peggio viene progettato il decalage.
Su quest’ultimo punto – la progressività per classi comunque denominata – è auspicabile che si arrivi a condividere l’obiettivo di eliminarla da ogni aspetto del nostro sistema di imposte e benefici.