IL Sole 24 Ore. Sarà pari all’1,5% dello stipendio il bonus straordinario assegnato dalla legge di bilancio ai dipendenti pubblici. A questa questa voce la manovra dedica un miliardo di euro, ma la spesa effettiva sarà superiore, intorno agli 1,8 miliardi. Come capita sempre quando si parla di stipendi pubblici, infatti, la legge di bilancio pensa ai soldi da destinare alla pubblica amministrazione centrale.
Ma gli stessi benefici economici devono essere replicati in sanità, regioni, province, comuni, città metropolitane, università e così via, tutte pubbliche amministrazioni che finanziano la spesa di personale con i propri bilanci autonomi. E che, in particolare negli enti territoriali, con l’aumento del peso degli stipendi vedono in genere ridursi gli spazi per le nuove assunzioni. La Pa centrale, di cui ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici non economici come Inps o Inail e scuola sono i principali rappresentanti, pesa per circa il 55% sul totale del monte salari dei dipendenti pubblici. Di qui la stima di 1,8 miliardi di spesa complessiva per l’una tantum introdotta dalla manovra: di cui solo un miliardo pesa sui saldi di finanza pubblica perché il resto andrà coperto in qualche modo all’interno dei bilanci locali. Nei conti dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici finiranno però circa 1,15 miliardi in tutto, perché la cifra è al lordo di contributi e Irap.
Il miliardo che è riuscito a farsi largo nel traffico delle voci di entrata e uscita della manovra è destinato al fondo per la contrattazione. Ma l’una tantum, spalmata sulle 13 mensilità dell’anno (Sole 24 Ore di domenica) non finirà sul tavolo delle trattative, anche perché c’è poco da negoziare. Il meccanismo si traduce in un aumento fisso dell’1,5% dello stipendio lordo: i fondi saranno distribuiti per decreto dal ministero dell’Economia.
Ma che cos’è nei fatti questo «emolumento accessorio» straordinario? Il meccanismo nasce dall’esigenza di riconoscere qualcosa ai dipendenti pubblici in tempi di inflazione alle stelle non avendo a disposizione i fondi necessari per il rinnovo contrattuale vero e proprio (quelli appena firmati riguardano il 2019/21, e manca ancora tutta la parte dirigenziale), che proprio a causa della corsa dei prezzi chiederebbe quasi 10 miliardi di euro per la Pa centrale e circa 16 miliardi per tutta l’amministrazione pubblica.
Nei fatti non è però un vero bonus anti-inflazione. Perché il carovita colpisce soprattutto i redditi medio-bassi, mentre l’aumento fisso in percentuale offre ovviamente cifre superiori a quelli più alti. Nei ministeri, per esempio, l’aumento vale 20,8 euro lordi al mese nella fascia retributiva più bassa, mentre arriva mediamente a 54 euro per i dirigenti di seconda fascia per salire a 74 euro per la prima fascia, dove oggettivamente l’inflazione morde meno.
Più verosimile, allora, considerare la novità come una sorta di anticipo dei fondi per i prossimi rinnovi contrattuali. Che richiederanno però un complicato lavoro di armonizzazione per evitare di far andare in altalena gli stipendi pubblici.