Francesco Longo e Mario Del Vecchio*. L’Italia è storicamente uno dei Paesi Ue caratterizzato da una bassa spesa pubblica per la sanità in termini di Pil investito. Prima del Covid (2019) eravamo al 6,4% del Pil, contro il 9,3% di Francia e il 9,9% di Germania. In termini di spesa pro-capite ciò si traduce in meno di 2.000 euro contro, rispettivamente circa 3.500 e 4.000. Al netto di improbabili colossali differenze nei livelli di efficienza ed efficacia dei sistemi, una tale differenza non può che riflettersi negativamente sui livelli di copertura dei bisogni con minori standard assistenziali e molte prestazioni di fatto escluse dalla copertura pubblica (odontoiatria, occhiali, assistenza alla non autosufficienza…).
Il Covid – e la comunicazione pubblica che lo ha accompagnato, in particolare quella politica – hanno generato l’immagine di un Ssn in espansione sul piano dei diritti tutelati e delle risorse investite. In effetti la spesa pubblica ha raggiunto poco più del 7% del Pil, lo stesso livello del 2010, ma con un contributo rilevante offerto dalla caduta del denominatore, piuttosto che dall’incremento, che pure c’è stato, del numeratore. Mentre il Ssn cerca faticosamente di riguadagnare la normalità, “smaltendo gli arretrati” del Covid e affrontando i nuovi bisogni generati dalla epidemia, riemergono inevitabilmente i problemi di finanza pubblica con cui ci eravamo lasciati nel 2019. I documenti ufficiali prospettano, infatti, un deciso ridimensionamento rispetto al Pil con un obiettivo per il 2025 del 6,1%, livello inferiore a quello del 2019.
Ai bisogni sanitari il sistema italiano, come avviene in tutti gli altri Paesi, risponde anche con risorse private: queste sono circa un quarto della spesa sanitaria totale, pari nel 2019 a 40 miliardi (2,3% del Pil). Si tratta di una spesa la cui distribuzione geografica e tra gruppi sociali è significativamente correlata al reddito (più spesa privata al nord, nelle città, nelle classi benestanti) e che genera differenze nelle possibilità di accesso alle cure a nella tutela della salute. Nel Covid la spesa privata è diminuita per effetto delle dinamiche del reddito e sta ora risalendo.
Se si guarda anche alla spesa sanitaria privata, considerando quindi l’insieme delle risorse che la nostra società destina ai consumi sanitari (spesa sanitaria totale sul Pil), la situazione italiana non può che destare preoccupazione. Mentre Paesi di riferimento per le attese della collettività, come Francia e Germania, destinavano nel 2019 alla sanità l’11,1 e l’11,7% del Pil, Italia con l’8,7% investiva meno di Portogallo (9,5%) e Spagna (9,1%).
L’Italia condivide con gli altri Paesi le dinamiche scientifiche e tecnologiche che aumentano, da una parte, le opportunità di intervento sulla salute e, dall’altra, il fabbisogno di risorse. Ciò che ci differenzia è deserto demografico che stiamo attraversando: il 24% della popolazione è anziano, doppiando oramai il numero dei bambini, con una previsione di arrivare al 35% di anziani nel 2040. Abbiamo la più bassa natalità al mondo (1,2 figli per donna, servirebbe 2,2 per tenere la popolazione stabile) e una delle migliori aspettative di vita nei confronti internazionali. La seconda è un’ottima notizia, ma contribuisce al nostro sbilanciamento demografico. Oggi il numero dei pensionati è già pari al 50% dei lavoratori e arriveremo tra 20 anni a un rapporto, difficilmente sostenibile dal punto di vista sociale, economico e politico, di quasi uno a uno. La conseguenza fisiologica è la riduzione della base imponibile potenziale (meno lavoratori) e l’aumento dei bisogni sanitari e assistenziali dovuto all’invecchiamento. Questo avrà inevitabilmente riflessi diretti di lungo periodo sul Ssn, rendendo ancora più ampie le divergenze tra domanda di cura e assistenza e risorse pubbliche disponibili. Sono classici wicked problem, che come tali difficilmente trovano spazio nel dibattito politico.
Il Paese con più anziani al mondo non può che aumentare significativamente (almeno 1,5 punti di Pil) la spesa sanitaria aggregata, pubblica e privata, se vuole allineare i servizi disponibili ai bisogni emergenti, alle attese collettive e individuali, ai livelli medi dei Paesi di riferimento. Se ciò non avvenisse per disegno, come frutto di scelte collettive, non è difficile immaginare che un aumento troverebbe comunque spazio attraverso le spontanee dinamiche di mercato alimentate da una domanda in grado di pagare e da una offerta alla ricerca di nuove opportunità.
Se vogliamo guidare una evoluzione, e non prendere semplicemente atto di ciò che accade, sono tre le possibili alternative. Possiamo aumentare il carico fiscale provando a collegarlo direttamente alla spesa sanitaria. In alternativa, possiamo incrementare la pressione contributiva sulle imprese e quindi sul costo del lavoro, con fondi integrativi facoltativi o obbligatori. Possiamo infine incentivare la spesa sanitaria dei consumatori, sia in forma diretta (out of pocket) che intermediata (mutue o assicurazioni).
Nessuna delle tre soluzioni sembra trovare un minimo di spazio nel dibattito politico e nella consapevolezza dell’opinione pubblica.
La recente campagna elettorale, in modo bipartisan, ha invocato la riduzione delle imposte su cittadini e lavoratori insieme alla riduzione del cuneo fiscale per le imprese. Se guardiamo poi al recente passato ogni qualvolta si è aperto uno spazio nel bilancio pubblico per il welfare i trasferimenti monetari hanno sempre avuto la meglio sui servizi reali, e non sembra che la tendenza possa essere invertita. Quindi le prime due strade proposte non appaiono culturalmente e politicamente al momento percorribili. Un aumento della spesa privata è una alternativa non meno ostica per le inevitabili differenziazioni che genererebbe tra i cittadini di rispetto al bisogno e per la difficoltà anche solo ad aprire un dibattito di fronte all’opinione pubblica sul tema.
In sintesi, se vogliamo rispondere alla evoluzione delle attese e dei bisogni e guidare l’aumento delle risorse che la collettività investe sulla sanità dobbiamo scegliere se: chiedere più risorse ai cittadini (imposte), alle imprese (contributi) o ai pazienti/consumatori, provando in quest’ultimo caso a trovare soluzioni che guardino comunque al benessere collettivo e generino la minore iniquità possibile.
Tutte le soluzioni appaiono oggi politicamente impraticabili, ma se non vogliamo vedere la protezione sanitaria e la coesione sociale progressivamente sfarinarsi abbiamo il dovere di affrontare il problema: cercasi coraggio interpretativo e decisionale per il Paese.
Francesco Longo, Cergas-SDA Bocconi
Mario Del Vecchio, Università di Firenze e Cergas-SDA Bocconi
Il Sole 24 Ore
21 ottobre 2022