La Stampa. Goro è isolata, ma non è un’isola. A qualche chilometro da Goro finiscono i campi della pianura padana, finiscono i Lidi Ferraresi, sopra c’è solo il delta del Po, che chiude l’Emilia-Romagna e Goro stessa col suo braccio maggiore: il Po di Goro. A Goro si parla quasi un’altra lingua, una cadenza di pescatori abituati a star per conto loro. Non è un dialetto veneto e non è emiliano. Per esempio, a Goro non si dice «il Po», ma si dice «i Po», perché il fiume qua si moltiplica.
Da quando il mare Adriatico è entrato per 40 chilometri nel suo letto a causa della siccità, a Goro hanno due problemi. Li chiamano «veso» e «acqua bianca», il primo è un’alga, il secondo una chiazza di mare dove ogni cosa muore: i pesci, le piante, ma soprattutto le vongole, e le vongole a Goro sono tutto.
La giornata del «vongolaro» comincia alle 4,00. I pescatori sono organizzati in cooperative e ognuna ha in appalto un’area della Sacca.
La Sacca di Goro è una laguna e in tempi normali l’acqua dolce si mischia con quella salata e sull’equilibrio tra le due vivono le vongole.
Quarant’anni fa, le vongole nostrane sono state sostituite dalla Ruditapes Philippinarum, che al supermercato si trova come Vongola Verace Filippina. Sono più resistenti agli sbalzi di salinità, sono grandi quattro volte le nostre e hanno avuto il sopravvento sul mercato.
Una volta nella Sacca, i pescatori si immergono con gli attrezzi per raccogliere le conchiglie dal fondo. Se sono sotto i 14 millimetri di larghezza, le spostano dove possano crescere ancora. Se hanno raggiunto i 17 millimetri, le mettono in barca e poi al porto. Dormono qualche ora e vanno al mercato a sentire l’asta. Lì capiscono se ci hanno guadagnato o andranno a perdere sul gasolio. Le contrattazioni di ieri a Goro erano a nove euro il chilo. Non è una buona giornata.
Auro fa il «vongolaro» da molto. Ha iniziato ad andare in mare con suo padre, poi hanno venduto il peschereccio d’altura per lavorare in Sacca. Allora era più redditizio.
«Sono calate ancora», dice, mentre sta in disparte a bere e fumare con i colleghi. «È logico, se dobbiamo vendere, bisogna calare il prezzo», gli risponde Loris, seduto tra i granchi vivi. «Di alghe ce ne saranno 10 mila tipi – spiega ancora Auro -. Ci sono anni che non se ne vede e giorni in cui spariscono tutte con un temporale». A Goro, però, non piove da parecchio e il Po è in secca. Allora, la «vesa» (scientificamente, ulva) prospera: «È come una coperta: sotto di lei, le vongole soffocano».
L’acqua bianca, invece, è un fenomeno diverso. «Si chiama crisi anossica», precisa Massimo Gennari, 38 anni, perito aziendale e presidente della Copego O.P., quella che con 600 pescatori è la maggior cooperativa della Sacca. «Le alghe muoiono e vanno in putrefazione, creando delle chiazze bianche, dove né i pesci né i molluschi riescono a vivere». Ogni anno i «vongolari» tolgono la «vesa» da quello che chiamano «l’orto», ma quest’anno ce n’è troppa, non si riesce.
La portata della crisi climatica che ha investito l’Italia nell’estate 2022 non era stata del tutto prevista, ma non è la prima volta che la Sacca si trova a lottare con le alghe. «Nel 2017 avevamo tassi di salinità simili – prosegue Gennari -. All’epoca, però, mancavano interventi di manutenzione. Quest’anno sono stati fatti tutti i canali, in modo che l’acqua circoli. Quando ci siamo trovati in mezzo alla moria, abbiamo fatto dragare la bocca secondaria, ma era tardi». Neanche il sistema cooperativo che caratterizza la filiera fa da paracadute.
«Ogni socio ha una quota, e, quindi, quando muore il prodotto è intaccato il reddito di tutti», ragionano alla Copego. Con stime di perdita sul 30% i pescatori ora aspettano l’intervento della Regione.
Nonostante tutto, ci si ingegna per adattarsi ai cambiamenti ambientali. Filippo Conventi è un altro «vongolaro», figlio di «vongolaro». «Altrove si va in fabbrica, a Goro la Sacca è la nostra fabbrica», dice quasi a giustificarsi. Da quattro anni, oltre alla pesca, lavora come agente in un progetto ambizioso: si chiama «Delta Futuro», tra un mese iniziano i lavori. Scaveranno delle vasche su terreni agricoli adiacenti alla laguna, ne prenderanno l’acqua e creeranno un bacino controllato di coltivazione delle vongole. «Tutto funzionerà a circuito chiuso: siamo abbastanza sicuri di poter tenere fuori le alghe – dice Conventi – e speriamo di piantare la prima vongola per la prossima primavera». Sono sette ettari e mezzo, sarà il più grande d’Europa, ma inizialmente ci lavoreranno solo una decina tra biologi e operai. Resta da trovare una soluzione per i quasi 2 mila suoi colleghi che ogni notte, tutto l’anno, entrano nella Sacca insieme con lui. —