Wired. I casi confermati di vaiolo delle scimmie hanno superato ormai quota 5.300. La maggior parte, oltre 4.100, concentrati nel continente europeo, dove Regno Unito, Germania e Spagna trainano per ora la conta dei contagi. Nonostante si tratti della più grande epidemia registrata al di fuori delle nazioni africane dove la malattia è endemica, l’Oms per ora non ha ritenuto necessario bollarla come Public Health Emergency of International Concern, o emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale, il livello di allerta più alto per le malattie potenzialmente pandemiche. Attualmente rimane quindi riservato a due soli patogeni: polio e Covid-19, e almeno per il momento il vaiolo non sembra destinato ad unirsi al gruppo, anche se dall’Organizzazione mondiale della Sanità assicurano che rivedranno la decisione tempestivamente ai primi segni di un cambio di rotta dell’epidemia.
La scelta ha sollevato diversi malumori, sia all’interno del comitato di esperti chiamati a prendere la decisione, sia nella società civile, per il timore che si ripeta quanto visto nei primi mesi del 2020, quando l’Oms ha esitato a sollevare i livelli di allerta per Covid-19, per poi vedersi scoppiare tra le mani una pandemia epocale. Nel caso del vaiolo delle scimmie, però, la malattia ha diverse caratteristiche che contribuiscono a rendere molto improbabili scenari simili a quelli visti con il nuovo coronavirus. Vediamo quali, e perché, ovviamente, non è comunque il caso di sottovalutare o ignorare il pericolo.
Il vaiolo delle scimmie è una malattia causata da un virus imparentato con quello del vaiolo umano. A differenza del cugino, eradicato ormai da quasi 50 anni, il monkeypox virus è più che mai vitale: è endemico in alcune aree del continente africano dove da origine periodicamente a focolai e piccole epidemie. A dispetto del nome, ha come reservoir naturale i roditori, che possono trasmetterlo ai primati, esseri umani compresi, in caso morsi, contatti stretti, o altri tipi di interazione ancora non del tutto chiariti. Di norma comunque i focolai di vaiolo delle scimmie hanno origine da un evento di trasmissione da animale a essere umano, tanto che fino allo scoppio dell’attuale epidemia la trasmissione del virus tra esseri umani non era stata mai accertata con sicurezza.
Esistono due ceppi del monkeypox virus: uno diffuso nei paesi del bacino del Congo, più letale, con una mortalità che in quest’area del mondo si aggira attorno al 10% (realisticamente in occidente sarebbe però minore, perché molte morti avvengono per cause evitabili in un moderno ospedale europeo); e un secondo endemico nell’area dell’Africa Occidentale, con una mortalità che si aggira attorno all’1%. Fortunatamente, è questo secondo virus ad aver dato origine all’attuale epidemia, nel corso della quale infatti, ad oggi, non sono riportati decessi al di fuori del continente africano. La malattia esordisce con febbre, brividi, cefalea, dolori muscolari, mal di schiena, affaticamento estremo e un rilevante edema (gonfiore) linfonodale. Dopo circa tre giorni, appare il sintomo inequivocabile: un’eruzione cutanea con macchie rosse che nel giro di qualche giorno evolvono poi in vescicole purulente, e quindi in croste. Il tempo di incubazione del virus è relativamente lungo – 1-3 settimane – e la guarigione arriva solitamente nel giro di tre o quattro settimane dall’esordio dei sintomi.
Questo almeno in un caso di vaiolo delle scimmie da manuale. Come rileva l’ultimo rapporto dell’Oms, nel corso di questa nuova epidemia spesso la malattia si è presentata invece con sintomoatologie atipiche, tra cui: un numero contenuto di lesioni, anche fino a una sola; l’assenza di lesioni, e la presenza di dolore e sanguinamento anale; lesioni circoscritte all’aria dei genitali o a quella perianale; lesioni che appaiono in uno stadio atipico della malattia, a volte prima dell’arrivo della febbre e degli altri sintomi sistemici.
Per ora, tutti i casi registrati in paesi in cui la malattia non è endemica sono stati leggeri. Nei focolai africani, il virus in passato si è rivelato più pericoloso per bambini e persone con Hiv o altri disturbi del sistema immunitario, e donne incinte. È per questo che l’Oms guarda principalmente a queste categorie nella valutazione dei rischi legati all’attuale epidemia. Rischi che si concretizzerebbero, ovviamente, nel caso in cui venisse confermata una trasmissione sostenuta del virus nella popolazione generale, cioè un aumento incontrollato dei casi non limitato ad alcune categorie o gruppi sociali, che farebbe assumere all’attuale outbreak di vaiolo delle scimmie un andamento pandemico.
Allo stato attuale si ritiene che la trasmissione del virus sia possibile solamente (o quasi) da parte di malati sintomatici, e che servano inoltre contatti prolungati per infettarsi. Questo spiega l’andamento che ha avuto fino ad ora l’epidemia. I casi sono per la stragrande maggioranza concentrati tra msm, o uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (definizione medica, forse datata, che va intesa in senso prettamente biologico-anatomico, indipendente quindi dall’orientamento sessuale o dal genere).
Se la situazione rimarrà questa, circoscrivere l’epidemia dovrebbe rivelarsi fattibile. A meno che il virus non abbia acquisito (ma non sembra averlo fatto) la capacità di diffondersi con facilità anche per via aerea, una giusta comunicazione indirizzata alle persone a maggior rischio di contagio, unita ai vaccini per il vaiolo umano (efficaci anche contro quello delle scimmie) che stanno venendo diffusi nei paesi con il numero maggiore di casi, come Spagna, Germania, Portogallo e Belgio, dovrebbe rivelarsi sufficiente. In caso contrario, ovviamente, ci troveremmo con l’ennesima, nuova, malattia infettiva con cui fare i conti.
Da dove arrivi il virus che sta alimentando l’attuale epidemia non è certo, ma un recente studio pubblicato su Nature Medicine può dirci da quanto tempo è realmente in circolazione, offrendo anche qualche indizio sulla sua provenienza. La ricerca, realizzata nei laboratori dell’Instituto Nacional de Saúde Dr. Ricardo Jorge di Lisbona, ha analizzato il Dna virale prelevato da 15 pazienti infettati nel corso dell’attuale epidemia, rivelando che il virus è imparentato con il ceppo responsabile di un vasto focolaio in Nigeria nel 2017-2018, e che all’epoca aveva prodotto qualche caso di esportazione anche nel Regno Unito, in Israele e a Singapore. Secondo i ricercatori portoghesi si tratta di un’evoluzione diretta dello stesso virus, che però sembra aver ricevuto una spinta da qualche evento che ha aumentato drasticamente il numero di mutazioni accumulate: trattandosi di un virus a Dna, particolarmente stabile a livello genetico, si aspettavano di osservare tra le 5 e le 10 nuove mutazioni rispetto a un virus del 2017, e ne hanno trovate invece una cinquantina. La maggior parte di queste è potenzialmente riconducibile, inoltre, all’azione di un enzima chiamato Apobec3, che svolge un ruolo di difesa per l’organismo, provocando l’accumulo di mutazioni dannose nei virus.
L’ipotesi dei ricercatori portoghesi è che il virus sia rimasto in circolazione al termine dell’epidemia nigeriana del 2017, diffondendosi sotto traccia nell’uomo o in qualche reservoir animale, accumulando mutazioni che evidentemente non si sono rivelate nocive, e potrebbero anzi averne aumentato la capacità infettiva. Quest’anno il virus avrebbe quindi compiuto il viaggio verso l’Europa, in un piccolo gruppo di pazienti (forse una singola persona), che lo avrebbero quindi diffuso fino a raggiungere i 3mila e più casi attuali, sulla spinta di alcuni eventi di superdiffusione come il Pride alle Canarie. Se così fosse, la vicenda rafforzerebbe uno dei ragionamenti che hanno spinto il comitato di esperti riunito dall’Oms a votare contro l’attribuzione di Public Health Emergency of International Concern alla nuova epidemia: il rischio di considerare problemi di salute internazionale solamente quelli che raggiungono i paesi occidentali. In Africa infatti il vaiolo delle scimmie provoca periodicamente focolai ed epidemie, che a differenza di quella attuale fanno registrare anche casi gravi e decessi, soprattutto tra i bambini. Fino ad oggi nessuno si era preoccupato della cosa, e il virus potrebbe così avere avuto l’occasione di farsi più pericoloso, riempire la nicchia lasciata scoperta dall’eradicazione del vaiolo umano, e quindi – ironia della sorte – presentare il conto in occidente, dove avremmo avuto gli strumenti per risolvere il problema da anni, se solo avessimo voluto.