Perché in Africa il virus del Covid uccide di meno? Ci aspettavamo che il Covid devastasse gli Stati africani, invece i tassi di mortalità si sono rivelati più bassi del previsto. Il direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano analizza le risposte che la scienza si è data (a partire da una convinzione personale che potrebbe, in parte, risolvere il mistero)
di Giuseppe Remuzzi*.Stephanie Nolen- una reporterdel New York Times che si occupa di salute da molti anni – in questi giorni affronta un problema di cui gli scienziati discutono fin dall’inizio della pandemia senza essere riusciti a trovare un accordo. Davvero il numero di infetti, di chi ha bisogno di ospedale e di chi muore in Africa è molto meno che in altre parti del mondo? E se fosse così, perché? E non è solo una curiosità. Se avessimo una risposta, potremmo adottare anche noi misure più appropriate per difenderci. E dire che nei primi mesi della pandemia tantissimi – incluso chi scrive – si diceva molto preoccupato che il Covid, in un continente con tre dottori ogni 100 mila persone, dove per di più ci sono malaria, HIV e tubercolosi (per non parlare della malnutrizione), avrebbe fatto molti milioni di vittime. Non è stato così, ma non perché gli africani siano protetti dall’infezione, tutt’altro. Chi ha cercato gli anticorpi li ha trovati almeno nel 70% della popolazione.
Vaccini, merce rara
Hanno gli anticorpi perché si sono vaccinati? No. Solo il 7% dell’intera popolazione dell’Africa è stata vaccinata. Quindi gli anticorpi possono venire soltanto dall’essersi infettati. Se ci allontaniamo però per un momento dall’intero continente e immaginiamo di avere una lente di ingrandimento e ingrandirne una sola parte – lo Zambia, per esempio – avremmo probabilmente un quadro più preciso. È quanto ha fatto Christopher Gill – uno specialista di salute pubblica dell’Università del Massachusetts a Boston – che per vederci chiaro si è messo a lavorare coi suoi colleghi proprio in Zambia (e uno di loro è morto di Covid proprio mentre lavorava a questo progetto). Gill ha condotto test negli obitori degli ospedali per cercare SARS- CoV-2 – il virus che causa Covid-19 – e lo ha fatto fra il 2020 e il 2021. Il 32% dei cadaveri testati era positivo al virus ma durante i picchi delle varianti Beta e Delta si arrivava al 90%. Ma quanti di questi, per quello che si può sapere, erano positivi prima, quando erano ancora in vita?
Il confronto tra Zambia ed Etiopia
Pochi, soltanto il 10%, e questo ci dice che dovevano esserci molti falsi negativi nei test disponibili in Africa o forse – e questo è ancora più probabile – che la maggior parte delle persone non venivano testate.
I dati del dottor Gill però contrastano in modo vistoso coi numeri ufficiali (meno di 4.000 morti di Covid registrati in Zambia nello stesso periodo, dove vivono 19 milioni di persone). Andando ancora più a fondo e incrociando i dati di Lusaka, la capitale dello Zambia, con le statistiche ufficiali del Sudafrica viene fuori che solo il 4-6% delle infezioni sono documentate dai rilievi ufficiali. Il dottor Gill pensa che una ragione per questa discrepanza stia nel fatto che, almeno in Zambia, le persone che muoiono di Covid, muoiono lontano dagli ospedali e quindi non vengono conteggiate. E adesso togliamo la lente dallo Zambia e andiamo per un attimo in Etiopia. Un professore della Wollo University a Dessie, in Etiopia, dice che lì le persone effettivamente si infettano, ma la malattia è lieve e in larga parte asintomatica. Un epidemiologo di Boston sostiene invece che in Africa non si fanno abbastanza test e le morti non vengono riportate accuratamente. Molte persone per esempio muoiono a casa, un po’ perché fanno fatica a raggiungere un ospedale, un po’ perché c’è una cultura diversa che da noi e le famiglie preferiscono che i loro cari muoiano a casa. Questi morti non saranno mai registrati. Tutto questo porterebbe a pensare che in Africa i morti possano essere di più di quello che pensiamo.
I casi dell’infanzia
E i bambini? Loro hanno per lo più una malattia lieve o addirittura asintomatica. Nonostante ciò fra i bambini africani ricoverati con Covid tra marzo e dicembre del 2020 quelli con meno di un anno avevano cinque volte più probabilità di morire che i ragazzi più grandi (15-19 anni) e se poi avevano pressione alta, malattie croniche dei polmoni, malattie ematologiche o tumori avevano ancora più probabilità di morire proprio come succede negli adulti. Per approfondire questo aspetto uno studio pubblicato su JAMA Pediatrics ha esaminato l’evoluzione del Covid-19 in quasi 500 bambini tra i 3 mesi e i 19 anni fra i ricoverati in sei paesi dell’Africa, dal Congo al Kenya fino all’Uganda, e di questi bambini il 34% ha avuto bisogno di ossigeno o addirittura terapia intensiva e il 20% di quelli che erano arrivati in terapia intensiva hanno avuto bisogno di una ventilazione meccanica. Sempre fra marzo e dicembre del 2020 l’8% di questi bambini è morto, mentre nello stesso periodo nei paesi industrializzati ne moriva tra l’1 e il 5%. Insomma, i bambini si ammalano e muoiono anche in Africa e anche di più dei nostri bambini e questo vale soprattutto per chi è molto piccolo e soffre già di altre malattie, anche perché questi bambini si trovano in un contesto dove ci sono pochi specialisti, un’organizzazione per quanto riguarda terapia intensiva pediatrica molto debole e pochi macchinari moderni. Chi si ammala in quelle condizioni rischia di morire anche perché quasi nessuno di quei bambini è vaccinato.
Usi e costumi diversi
Insomma in Africa ci si infetta come dalle altre parti e forse anche di più ma la malattia sembra avere un decorso meno grave e probabilmente si muore di meno (per i bambini specie per quelli molto piccoli va fatto un ragionamento a parte). Secondo le stime dell’ Economist però ci sarebbero stati dall’1 ai 3 milioni di morti in eccesso su una popolazione di un miliardo e mezzo di persone. È comunque un terzo delle morti in Europa o negli Stati Uniti e secondo alcuni autori i numeri dell’Economist sono sovrastimati, è verosimile che i morti siano intorno a un milione o forse addirittura un po’ meno. Tanto è vero che nelle grandi città dell’Africa (Il Cairo o Nairobi per esempio) le migliaia di morti che si sono visti a Nuova Delhi, a New York o anche solo a Bergamo nei momenti peggiori della pandemia non ci sono stati. Non dimentichiamo che la maggiore causa di diffusione dell’infezione nei paesi industrializzati dipende dal fatto che le persone anziane o molto anziane vivono di solito in residenze “per anziani” appunto, che prima o poi diventano luoghi dove l’infezione si trasmette più facilmente. Queste strutture invece sono rare nella maggior parte delle regioni dell’Africa, là normalmente i vecchi ritornano nelle loro case rurali dopo aver lavorato, magari per molti anni, nelle aree grandi città e va detto che nelle aree rurali la densità di popolazione è bassa ed è quindi molto più facile mantenere le distanze. Non solo, ma gli africani in genere viaggiano molto meno di noi e anche questo riduce le occasioni di contatto fra le persone. A questo punto ammesso che in Africa ci siano stati davvero meno morti che nei paesi occidentali – e da quanto detto fino ad ora sembra che sia proprio così – ci dobbiamo chiedere perché.
Tante ipotesi, nessuna spiegazione
Uno può pensare che sia perché gli africani sono più giovani (l’età media è 19 anni, da noi 47, in Europa 44 negli Stati Uniti 38). Non solo ma nella popolazione dell’Africa sotto il Sahara solo il 3% delle persone raggiunge i 65 anni e questo vuol dire che non vivono abbastanza a lungo per avere malattie del cuore, diabete, malattie respiratorie croniche e tumori, per morire di Covid. Potrebbe anche dipendere dal fatto che gli africani passano molto più tempo all’aperto, fa più caldo che da noi e il trasporto pubblico non c’è o funziona male. C’è anche la possibilità che il loro sistema immune sia più efficiente nell’affrontare infezioni batteriche o virali per via delle cattive condizioni igieniche o perché nel corso della loro vita sono esposti a molte altre malattie, dall’HIV, all’ebola alla febbre Lassa. Qualcuno ha pensato anche che a proteggere i neri dell’Africa da Covid-19 potrebbe essere il vaccino antitubercolare che anche stimola il sistema immunitario ed è possibile che lo aiuti a difendersi meglio anche da altri tipi di infezioni, batteriche ma anche eventualmente virali. Fra l’altro è ben noto che in Africa i bambini trattati con il vaccino antitubercolare sono protetti non solo dalla tubercolosi ma anche da altre infezioni. Tutte queste ipotesi poi sono un po’ difficili da sostenere perché quanto abbiamo detto si applica anche all’India: l’età media è di 28 anni, la temperatura è relativamente alta, anche lì la gente vive all’aperto, si è esposti a infezioni per le condizioni igieniche precarie e ci si vaccina per la tubercolosi, eppure lì ci sono stati milioni di morti.
E se fossero i geni?
A questo punto verrebbe da chiedersi se non sia una questione di geni. Forse, o forse no. A favore del “forse no” c’è il fatto che i neri americani sono andati peggio dei bianchi. Ma c’è un lavoro di Nature che mi ha colpito e che ho discusso in dettaglio in un articolo su La Lettura del Corriere . C’è un aplotipo (gruppo di geni che si ereditano tutti insieme) che aumenta il rischio di ammalarsi di forme gravi di Covid-19. È fatto di 13 varianti genetiche che si trovano sul cromosoma 3 e sono arrivate a noi dai…Neanderthal. Possibile? Proprio così. L’Homo sapiens quando lascia l’Africa si incrocia con i Neanderthal almeno tre volte e questo deve essere successo tra i 35 mila e gli 85 mila anni fa in Persia. Il risultato è che ciascuno di noi ha dall’1 al 3% del proprio DNA che viene da Neanderthal. Chi ha ereditato quell’aplotipo sul cromosoma 3 rischia un Covid più grave e di morirne. Dei nostri antenati però, quelli che non hanno lasciato l’Africa i Neanderthal non li hanno incontrati mai e loro l’aplotipo di rischio non ce l’hanno. Questa circostanza potrebbe spiegare perché gli africani hanno Covid meno severo e muoiono di meno? O sarà una coincidenza?
Quanto contano gli antenati?
A me piace pensare che quell’incontro di tanti anni fa dell’Homo sapiens con i Neanderthal, che ci ha dato tante cose buone (proteggerci dal freddo per esempio e saper sintetizzare la vitamina D anche con la pelle bianca) abbia influenzato nel bene e nel male anche il funzionamento del nostro sistema immune. Una volta quell’aplotipo – quello del cromosoma 3 – proteggeva i Neanderthal da infezioni gravi e potenzialmente fatali, adesso viene fuori l’altra faccia della medaglia: un eccesso di risposta immune non solo non ci protegge ma ci espone a una malattia più severa. Per i neri dell’Africa, quelli che non si sono mai mossi di lì, questo problema non c’è.
Altri problemi di salute
A questo punto c’è chi si chiede se abbia senso fare ogni sforzo possibile per arrivare a vaccinare il 70% della popolazione africana o se non sia meglio indirizzare queste risorse verso la prevenzione di altre malattie, malaria, poliomielite, morbillo, colera, meningite per non parlare della malnutrizione. Sembrerebbe logico, ma ancora una volta le cose non sono così semplici. Vaccinare la popolazione africana, quando si sperava che il vaccino avrebbe fornito un’immunità permanente, era certamente più sensato di quanto non sia farlo adesso, anche se con questo virus non si può mai stare davvero tranquilli. Un lavoro pubblicato su Science lo scorso anno, dopo aver analizzato quasi 9 mila genomi da 33 Paesi dell’Africa, ha dimostrato come le prime varianti sono arrivate dall’Europa ma altre sono sorte in Africa, per questo l’Africa non va lasciata indietro nella strategia globale di lotta alla pandemia. Se in un intero continente poco vaccinato emergesse una variante contagiosa come Omicron e magari più letale di Delta, sarebbe una tragedia per il mondo intero. Chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui penserà che ho sollevato molti più dubbi di quanti non sia riuscito a scioglierne. Dovete scusarmi ma è proprio così.
*direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano