Il Corriere della Sera. Giuseppe Remuzzi ha il rimpianto più grande in bella vista sulla scrivania. «È una copia dello studio pubblicato il 24 gennaio del 2020 su Lancet. Gli autori erano un gruppo di colleghi cinesi che avevano studiato i pazienti infettati da un nuovo Coronavirus a Wuhan. Diceva già tutto quel che sarebbe successo. Dall’infezione che causava focolai di malattie respiratorie, alla terapia intensiva, fino all’alto tasso di mortalità».
Quale fu la sua reazione dopo averlo letto?
«Quella che ebbero tutti: chissà se è vero, e comunque non arriverà mai da noi. Non ci abbiamo creduto. Anche se avanzatissima a livello medico, la Cina continua a essere lontana».
Le pesa ancora?
«È un rimorso che mi porterò dentro per sempre. La comunità scientifica, della quale faccio parte, ha una enorme responsabilità nel disastro di questi due anni. Quando i parenti delle vittime e le persone colpite dal virus chiedono di identificare i responsabili di quel che è andato storto, beh, ci siamo anche noi».
Cosa avreste potuto fare?
«Nel giro al massimo di settantadue ore avremmo dovuto dare vita a una mobilitazione, avvertire le autorità, fare sentire la nostra voce, parlare con i singoli ricercatori. Invece, abbiamo perso tempo, abbiamo perso almeno quelle quattro settimane che poi furono fatali alla mia Bergamo».
Ha mai perso la speranza?
«A un certo punto, dissi a uno dei miei più cari amici: qui moriamo tutti. Sembra una esagerazione, con il senno di poi. Ma così ci si sentiva a Bergamo in quei giorni».
Cosa la angosciava di più?
«La lotta in apparenza vana dei giovani medici del Papa Giovanni XXIII di Bergamo, il mio ospedale, che avevo appena lasciato. Tutti, nefrologi, dermatologi, ortopedici, chiamati a un combattimento estremo, fare respirare i pazienti. Io so cosa vuole dire fare due notti di fila in ospedale. Quando sei stanco, e speri solo che non arrivi un altro paziente. Invece le sirene suonavano in continuazione, non finiva mai».
Temeva anche per la sua vita?
«Ho avuto paura, sì. Fin da subito mi convinsi che fosse fondamentale non perdere i primi giorni dopo il contagio. Cominciai a dormire con due antinfiammatori, sul comodino. Li ho presi un sacco di volte, appena avvertivo qualche fastidio, oppure se ero stato vicino a persone contagiate».
Come reagì?
«In quei giorni, cominciai a pensare se c’era un modo per curare le persone a casa. Senza mandarle in ospedale. C’era tanto materiale da studiare. Tutti i medici del mondo misero a disposizione le loro conoscenze per applicarle al virus. Prima della pandemia, non si era mai collaborato in modo così stretto. Questo impressionante sforzo collettivo è una delle poche cose di questi anni pandemici che andrebbero salvate».
La celebre Atalanta-Valencia disputata a San Siro il 19 febbraio fu la bomba che fece esplodere il contagio?
«A quella partita, io c’ero».
Prego?
«Pensi che non andavo allo stadio da vent’anni, e non ci sono più tornato dopo. Un nostro fornitore aveva biglietti omaggio e ci teneva molto che andassi con lui e gli altri ospiti. Partimmo insieme da Bergamo, su un pullmino. La cosa incredibile è che durante il viaggio, mi chiese di fare un piccolo discorso su questa malattia misteriosa si cui si parlava tanto. Mentre stavo entrando in un focolaio di massa. In uno stadio con dentro 44 mila persone. Ero seduto accanto a un sacerdote bergamasco, grande intenditore di calcio. A ogni gol, e ne segnammo quattro, mi abbracciava».
Mentre cominciava a studiare il virus, andò nel posto più sicuro per prenderlo?
«Poco tempo dopo chiesi al mio ospite quante persone del nostro gruppo si fossero ammalate. Zero. Questo non toglie che avrei potuto contribuire a quell’onda di ricoveri che ben presto avrebbe travolto i miei medici. Racconto questa vicenda per dire come nonostante le conoscenze tecniche che stavamo immagazzinando, eravamo ben lontani da una corretta percezione della realtà. Dopo, è facile per tutti fare i professori. Ma quella sottovalutazione generale rimane l’errore più grande».
Altre cose che non rifarebbe?
«Non accetterei più l’invito a quei talk show in cui chiamano te, un no vax, due politici, tre influencer, e ti fanno dire una cosa in un minuto, tra decine di voci dissonanti. Non mi piace niente di quel formato, perché non si parla davvero. E si contribuisce solo a diffondere disinformazione».
Il documento del giugno 2020 firmato insieme a nove altri esperti sul virus che ormai era più debole?
«A un certo punto non arrivavano più malati nei Pronto soccorsi. Ci fu davvero una fase in cui i sintomi della malattia si fecero più deboli. Non fu una mia iniziativa, non ero tanto convinto di firmare, ma le critiche furono ingiuste. Si fotografava una situazione. In quel momento, era così. Le cose purtroppo cambiarono nell’autunno seguente. Con il senno di poi fu un errore, ma non lo rimpiango».
Il giorno migliore?
«La data precisa è il 27 dicembre 2020. Il direttore dell’azienda sanitaria di Bergamo mi chiese di fare il vaccino per primo, davanti al personale medico e agli infermieri dell’ospedale di Alzano Lombardo. Provai una sensazione di grande privilegio, della quale quasi mi vergognavo. Pensai alle migliaia di persone che si sono prestate a testare il vaccino, quando ancora non si sapeva nulla della sua efficacia. Hanno rischiato senza avere alcuna certezza. Sono gli eroi sconosciuti della pandemia».
Professore, sta davvero finendo?
«Cito un recente lavoro pubblicato su Lancet: il virus rimarrà con noi per tanti anni, ma stiamo andando verso la fine della pandemia. E non ci sarà più un momento come quello iniziale, quando non sapevamo nulla, per colpa nostra».