Repubblica. «Sono davanti alla tv, a vedere Roma- Gent. Ricordo tutto, tutto è nitido: uno a zero per noi, il colore delle magliette. Squilla il telefono, è l’assessore alla sanità della Lombardia. Mi dice: c’è un primo caso a Codogno». In questi due anni maledetti, Roberto Speranza ha ripensato spesso a quella partita del 20 febbraio 2020: «Nella mia vita esiste un prima e un dopo quella telefonata. In quel preciso momento finisce la speranza coltivata dall’Occidente: il Covid non è come la Sars, non riusciremo a impedirne l’arrivo, è già tra noi. Decido subito di partire. Firmo le prime ordinanze. Poco dopo arriva l’altra notizia: il primo morto a Vo’ Euganeo». È la prima di 152.848 vittime. Una conta terribile: «Sì, fa impressione questa montagna di dolore».
Due anni dopo Vo’, dunque. Voglia disperata di normalità. L’ha detto l’altro ieri Mario Draghi, come lo sfogo di un comune cittadino: rivogliamo per tutti la vita normale, quella di prima, il prima possibile la daremo indietro. «Condivido quel sentimento. Ho voglia anch’io di mettermi alle spalle questa stagione, come dice Draghi. Siamo dentro un percorso e dobbiamo continuarlo, ma tenendo i piedi per terra. Sappiamo che con il 91% di over 12 vaccinati e la variante Omicron c’è un contesto diverso. Ma serve gradualità». Il primo snodo è lo stato d’emergenza, che scade il 31 marzo. Speranza lascia intendere che potrà essere superato. Ma difende Green Pass e mascherine al chiuso. «Il mio è un messaggio di fiducia: se la tendenza di riduzione della curva continua, lavoreremo nelle prossime settimane per superare lo stato d’emergenza. Ma il Covid non prende l’aereo e va via il 31 marzo. Possiamo decidere formalmente di superare l’emergenza, penso che ci possano essere le condizioni per farlo, ma alcune cose dovremo conservarle. Il Green pass è stato ed è un pezzo fondamentale della nostra strategia. Le mascherine al chiuso sono ancora importanti: non riesco a vedere un momento X in cui il virus non esiste più e cancelliamo insieme tutti gli strumenti».
Il passaporto vaccinale ha consentito livelli di vaccinazione tra le più elevate del pianeta: senza, come convinceremo gli italiani a immunizzarsi nel prossimo autunno? «Non ho una risposta, per questo sono prudente sul Green Pass. È ovvio che misure del genere devono avere una temporaneità, ma dire ora – con sessantamila casi al giorno – che l’impalcatura va smantellata, beh, penso sia un errore. Ribadendo, però, una cosa: tutte le attività resteranno aperte. Nell’inverno 2021 l’Austria faceva il lockdown: l’Austria, che quasi riusciamo a vederla se ci affacciamo da qui. Lo stesso in diversi Lander della Germania. Noi abbiamo lasciato aperta la scuola e quasi tutto il resto. Con un Green Pass solido abbiamo piegato l’ondata senza chiusure generalizzate. Adesso sento dire: riaprite! Domando: ma cosa, se è già praticamente tutto aperto? Non è un caso se l’economia dell’Italia sia cresciuta del 6,5%, più della media Ue».
E torniamo alla voglia disperata di normalità: quando riavremo il mondo di prima? «Questo è l’anno cruciale per capire se torneremo a un vita pienamente normale. Sono ottimista, ma la partita non è chiusa. Tra pochi mesi, un pezzo di mondo entrerà nell’autunno: osservandoli, capiremo cosa ci aspetta. A marzo parte la quarta dose per gli immunocompromessi, ma dovremo valutare il richiamo per tutti dopo l’estate. È da considerare probabile, perché il virus non stringe la mano e se ne va per sempre. Purtroppo».
Il messaggio calibra speranza e cautela. Per questa postura i sovranisti l’hanno bollato come “ministro delle chiusure”. Inevitabile il lockdown, con il senno del poi? «Lo era. Molti hanno cambiato linea dieci volte: apriamo, chiudiamo, vacciniamo, anzi no. Io ne ho sempre avuto una sola: l’evidenza scientifica. La storia ci ha detto che non c’era alternativa al lockdown». Altri criticano il governo per non aver agito tempestivamente sui primi focolai del bergamasco: «Nessuno conosceva il virus. C’erano solo parziali informazioni dalla Cina. Non mandammo subito le camionette a chiudere tutto il Paese, provammo a circoscrivere l’area, ma ci rendemmo conto che il virus era già altrove, nelle province di Piacenza, Bergamo, Brescia. La scelta del lockdown nazionale ha evitato che la prima ondata arrivasse al Sud, salvando molte vite: questa è la verità».
Si sente anche, spesso, che l’Italia non era preparata per questa sciagura. Che non aveva aggiornato il piano pandemico. «Ma chi lo era nel mondo? Nessuno – neanche noi – aveva un manuale d’istruzione. Per l’Italia penso che il punto sia stato uno: affrontiamo da sempre grandi calamità naturali come terremoti e alluvioni, ma non avevamo tradizione per gestione di un’emergenza sanitaria di lunga durata come questa». Eravamo anche sguarniti di materiali: poche mascherine, strutture sanitarie fragili: «È quello che ho fatto, in questi due anni: 20 miliardi del Pnrr sulla sanità, il Fondo sanitario nazionale aumentato di 10 miliardi in 24 mesi, per la prima volte un Programma operativo nazionale per la salute. E però…» Dica, Speranza. «Nella partita con il virus c’è un prima e un dopo: il vaccino. Pensiamo ai numeri: negli ultimi due mesi abbiamo avuto più positivi del resto della pandemia, eppure le terapie intensive si sono fermate a 1.700 pazienti». Il vaccino: per tutti il ricordo più dolce, emozionante. «Lo è. Era giugno del 2020, Pfizer e Astrazeneca ci dissero che sarebbe stato pronto entro fine anno. Diedi l’annuncio a villa Phampilj, era l’inizio del nostro riscatto. Sarebbe seguito un tempo non semplice per uscirne del tutto, ma l’uomo aveva trovato il modo per cambiare la storia e vincere la partita».
Due anni di pandemia hanno reso Speranza tra i volti politici più conosciuti. Un volto scavato. «Molti ministri della Salute hanno lasciato dicendo: «Non ce la faccio più». A volte è stata durissima, soprattutto marzo del 2020. Ma in nessun passaggio mi sono sentito solo: avevo al mio fianco la comunità scientifica italiana, il governo e il sorriso dei miei figli. Devo essere onesto, non ho mai pensato di mollare. Neanche per un istante».