Repubblica. L’infezione cresce a un ritmo mai visto. Nella settimana che si è chiusa ieri i casi sono stati 680 mila, cioè oltre due volte e mezzo (il 163%) rispetto a quelli del periodo compreso tra 20 e 26 dicembre. I nuovi positivi in sette giorni sono più di quelli scoperti in tutto il mese precedente. E la curva, al netto del calo di ieri (60 mila diagnosi ma un tasso di positività al 22%) dovuto alla riduzione dell’attività dal primo gennaio, non sembra ancora destinata a scendere.
Con la circolazione che cresce, anche a fronte di casi meno gravi grazie soprattutto alla vaccinazione, inizia ad osservarsi anche un preoccupante andamento dei ricoveri, che probabilmente già dalla prossima settimana porteranno in arancione Liguria, Calabria e Marche. Ieri, ma i numeri sono sempre riferiti al primo gennaio, sono stati 491 i nuovi ingressi nei reparti, come se un intero ospedale italiano di media grandezza fosse diventato esclusivamente dedicato al Covid. In sette giorni i ricoveri sono cresciti di quasi il 27% (e del 21% in terapia intensiva) contro il 18% della settimana precedente. Negli ospedali è allerta, si teme che l’aumento dei ricoveri prosegua. Ieri i pazienti erano 13.075, dei quali 1.319 in intensiva. A rendere la situazione più critica c’è l’aumento del numero degli operatori sanitari contagiati, che quindi non possono lavorare. Il numero dei nuovi casi tra medici e infermieri è più che raddoppiato in una settimana.
Se gli ospedali tremano, il territorio già da giorni è in crisi nera. Le Asl praticamente non fanno più il tracciamento in nessuna Regione italiana. Meno del 10% dei casi ricevono la chiamata degli uffici di prevenzione per ricostruire i contatti. E così i problemi sono molteplici. Ci sono tantissimi positivi, quasi 1,1 milioni di persone, e tanti servizi sono a rischio. Tra l’altro con questi tassi di crescita della curva, ogni giorno le nuove diagnosi sono superiori alle negativizzazioni. Per questo interi settori rischiano di bloccarsi. Anche il sistema sanitario viene indebolito dai tanti casi di infezione, proprio nel momento in cui aumenta la pressione da parte delle persone che sviluppano forme di Covid più pesanti.
Da oggi si accentuerà un altro problema, che ridurrà ancora di più il numero di cittadini al lavoro. Visto che il tracciamento è saltato, le aziende sanitarie non sono quasi mai in grado di certificare la fine della malattia, cioè di rilasciare un documento necessario per tornare a svolgere il proprio impiego. Il tampone negativo da solo non basta. Da oggi ci saranno migliaia di cittadini che cercheranno il dipartimento di prevenzione della propria città per ottenere il certificato. In certe Regioni, come il Veneto, ci si può rivolgere al medico di famiglia. Questi professionisti però sono travolti dalle chiamate di chi ha sintomi o comunque ha avuto il tampone positivo.
«I pazienti devono consultare il medico di famiglia all’inizio, quando va segnalata la positività – dice Silvestro Scotti, segretario del sindacato Fimmg – . Poi andrebbe monitorata la quarantena, cosa che possono fare solo i dipartimenti di prevenzione. In certe Regioni abbiamo questo ruolo anche noi. Queste due cose sono assolutamente saltate. Se io medico di famiglia segnalo nessuno registra il mio caso». Il problema è sempre quello, i dipartimenti sono travolti dal lavoro, quasi paralizzati. «Se il tampone è negativo – riprende Scotti – ci vuole un certificato di fine isolamento per rientrare al lavoro. Ma visto che le Asl sono in crisi in tanti si rivolgono a noi. Che siamo già pieni di lavoro». Scotti è polemico: «In due anni non si è stati in grado di costruire un sistema per semplificare le procedure di gestione dei casi e così ci troviamo a questo punto».