Il Tempo. C’è un’altra epidemia che si sta diffondendo a macchia d’olio in Italia, anche se mediaticamente offuscata da quella di coronavirus. L’influenza aviaria, in soli due mesi, ha già fatto registrare 215 focolai, concentrati prevalentemente negli allevamenti del nord della penisola: il Veneto è in assoluto la regione più colpita, in particolare le province di Verona e Padova; segue la Lombardia, con le province di Brescia e Mantova. Ma ci sono stati casi di positività al virus anche in provincia di Udine (una gazza ladra euroasiatica ha infettato il pollame), nel riminese e in alcuni allevamenti rurali ad Ostia Antica. In totale sono morti circa 10 milioni tra tacchini, galline ovaiole, polli da carne, quaglie e faraone, sommando quelli contagiati dall’influenza e quelli abbattuti in via precauzionale.
Il primo caso confermato risale al 19 ottobre scorso. La maggior parte dei virus sono stati identificati come appartenenti al sottotipo H5N1 e classificati «ad alta patogenicità». «È la più grave epidemia di aviaria degli ultimi 20 anni, per numero di animali colpiti e per velocità del contagio- spiega a “Il Tempo” Calogero Terregino, direttore del Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria– Sono eventi stagionali, legati alla migrazione di uccelli selvatici dal sud della Russia e dal Kazakistan verso Paesi più caldi dell’Europa centrale e del Mediterraneo. Ma è dal 2000 che non registravamo numeri simili. L’anno scorso l’Italia era stata graziata, con soli 3 focolai. Il virus ora sta dilagando perché è entrato in un’area, quella veneta, densamente popolata dal pollame, con migliaia di allevamenti. Sono state create delle zone di sorveglianza e di protezione attorno ai focolai, con controlli serrati sulla movimentazione degli animali».
Secondo l’aggiornamento fatto il 14 dicembre dall’Istituto zooprofilattico delle Venezie, i focolai in Europa sono 922, di cui 215 in Italia (207 casi tra il pollame domestico e 8 tra volatili selvatici). Nei primi 5 posti della classifica dei Paesi più colpiti dal contagio ci sono anche la Germania con 354 positività, di cui 322 tra uccelli selvatici; i Paesi Bassi con 97 casi (81 volatili selvatici, 9 ornamentali e 7 polli domestici); la Polonia e l’Ungheria, rispettivamente, con 44 e 42 focolai.
In questi giorni, è uscita una circolare del Ministero della Salute in cui si legge che «allo stato attuale il rischio di trasmissione del virus aviario all’uomo è considerato basso, ma in considerazione del potenziale evolutivo del virus si ritiene necessario monitorare la situazione al fine di identificare eventuali cambiamenti».
«Come ci ha insegnato il Covid – conferma Terregino – non si deve abbassare la guardia: il salto di specie, infatti, non si può escludere. Per questo è stato approvato nei mesi scorsi un piano pandemico per l’aviaria. Quello che possiamo escludere con certezza è il rischio di contrarre il virus consumando la carne di pollame o le uova, anche se infette. L’uomo può contagiarsi solo inalando grosse quantità di particelle del virus, come accadde in Cina».
Nel 1997, infatti, ci fu ad Hong Kong uno dei primi casi di positività all’aviaria nell’uomo. Uno studio dell’Istituto superiore di sanità registrò, dal 1999 al 2003, sette allevatori italiani su 983 risultati positivi al sottotipo H7N3. «Il ripetersi di un’epidemia di questo tipo, nelle stesse zone, non deve stupire – spiega la Lega anti vivisezione – Le condizioni di sovraffollamento delle galline nei capannoni costituiscono il terreno ideale per la diffusione dell’infezione tra gli animali. Lo stresse la densità li espongono ad una estrema facilità di contagio, anche a causa delle loro bassissime difese immunitarie».
Le immagini girate dalla Lav a ottobre in due allevamenti di galline ovaiole delle province di Brescia e Mantova, mostrano «animali sofferenti, cadaveri in decomposizione, condizioni igienicosanitarie del tutto inadeguate».