Repubblica. Un’Italia con il record assoluto di denatalità e con un numero di morti da terza guerra mondiale, un invecchiamento della popolazione che neanche il Covid ha rallentato, donne che diventano mamme non più giovani, ragazzi deboli e meno capaci di reagire. E però un’Italia consapevole, speranzosa e fiduciosa di risollevarsi. Questo il Paese che, secondo Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, ci restituisce la pandemia.
Come vede l’Italia che faticosamente prova a venire fuori dall’emergenza Covid?
«Vedo un Paese che si muove in due direzioni: cerca di rialzarsi dalla crisi economica e fa i conti con un colpo demografico non indifferente in una situazione già fragile.
Decisamente un Paese segnato da un’esperienza drammatica che ha avuto lo stesso impatto, in termini di perdita di vite umane, di una terza guerra mondiale. Più di 130.000 vittime, certamente per la maggior parte nella popolazione più anziana, e che però non hanno rallentato l’inesorabile processo di invecchiamento».
Anche perché di bambini se ne sono fatti ancora di meno durante la pandemia.
«Se le previsioni saranno confermate chiuderemo il 2021 per la prima volta sotto quota 400 mila nuovi nati, probabilmente intorno a 390 mila. Per dare un elemento di confronto, nel 1964 avevamo oltre un milione di nascite. Un calo continuo e accentuato dal 2008, poi c’è stata la bufera Covid, un colpo demografico in una situazione già fragile che, nel lungo periodo e se la tendenza rimanesse invariata, porterà la popolazione italiana a 30 milioni, la metà di oggi».
Perché le giovani coppie hanno rinunciato a fare figli in lockdown?
«Paura e incertezza dell’ignoto come accadde dopo Chernobyl, una diminuzione del 10 per cento. Solo a marzo c’è stato un aumento, un colpo di scena grazie alle donne, non più giovanissime, italiane e laureate che – esaurita la prima ondata – hanno pensato che il peggio fosse passato e hanno messo in cantiere un figlio. Poi, con la ripresa dei contagi, il calo è ripreso costante. Non a caso per un certo periodo una delle parole più cliccate su google è stata contraccezione. Le donne straniere, invece, hanno proprio rinunciato.
Troppe difficoltà per loro».
Anche l’età media in cui le donne decidono di fare un figlio si è ancora alzata?
«Sì, siamo ben oltre i 30 anni, in una fascia che oscilla tra i 32 e i 35 anni. E questo significa che la popolazione femminile in età feconda è meno numerosa e più matura. Dunque c’è una carenza potenziale di mamme.
Anche i matrimoni si sono dimezzati. Troppa incertezza sul futuro. Un figlio costa ma non è solo una questione di soldi».
Mancano servizi e strutture.
Non a caso il numero delle giovani donne che hanno abbandonato il lavoro in pandemia è cresciuto.
«Le donne, insieme ai giovani, sono quelle che più hanno sofferto. C’è una enorme difficoltà a gestire la famiglia, a conciliare i tempi del lavoro con la crescita di un figlio. Se un asilo mi costa 500 euro al mese e io ne guadagno 800 rinuncio al lavoro e resto a casa. Ad agosto su 80.000 posti di lavoro persi, 68.000 sono donne. E a rischio c’è anche la valorizzazione della cultura, della formazione, della preparazione professionale delle donne. Per questo la strada giusta è quella dell’assegno unico universale, allargato proprio a tutti».
E i giovani? In crisi di socialità, più aggressivi, fuori dal mercato del lavoro? Come li vede?
«Non c’è dubbio che rispetto alle precedenti generazioni sono più deboli, meno capaci di reagire, meno avvezzi a rimboccarsi le maniche. Ma sono preparati, hanno grandi potenzialità, sono al passo con i tempi. Quello che occorre fare è aiutarli a trovare stimoli e gratificazioni, guidarli verso obiettivi anche piccoli, lavorare sulla loro autostima».
È un quadro a tinte fosche quello che tratteggia. Draghi però sembra fiducioso. E lei?
«Anche io. La crisi economica è forte ma meno di quello che si temeva e soprattutto siamo sulla buona strada per superarla. Si avverte una grande fiducia sia nelle famiglie che nelle imprese. C’è una grande spinta a ricostruire un Paese migliore sulle macerie del Covid. Se ci muoviamo per gestire il cambiamento, la ripresa potrebbe essere a portata di mano. Occorre dare segnali positivi, far girare informazioni corrette.
Consapevolezza, speranza e disponibilità sono le tre chiavi per la ripartenza».