Ma anche ciò che è considerato biologico va correttamente interpretato: “Il biologico non deve essere greenwashing, ma deve diventare un cambio di paradigma affinché niente sia più come prima”. Nel nuovo documento redatto dai Medici per l’Ambiente i rischi dell’allevamento intensivo. IL DOCUMENTO
L’allevamento intensivo inquina terra, acqua e aria e genera innumerevoli altri danni: deforestazione, promozione dello sviluppo di prodotti Ogm in agricoltura, perdita di biodiversità, sviluppo di zoonosi, concorso all’antibiotico resistenza. Ma attenzione anche ai cosiddetti allevamenti “biologici”. Terminologia utilizzata e abusata dietro la quale può nascondere una violazione non solo dei parametri ambientali ma anche di quelli morali.
A lanciare l’allarme è l’Associazione medici per l’ambiente – Isde Italia che in un nuovo Position paper ha analizzato l’impatto sulla salute umana delle tipologie di allevamento ‘Intensivo’ e ‘Biologico’ con l’obiettivo di dare anche un contributo al dibattito del Green Deal Europeo.
“Oggi una nuova consapevolezza globale pone alla coscienza del consumatore anche la ‘questione animale’ in merito al loro benessere e alla copertura dei fabbisogni alimentari nel mondo – sottolinea l’Isde – la nostra dieta deve cambiare per diventare più sana, per mettere fine alla fame nel mondo, per salvare il Pianeta e per dare dignità e benessere al mondo animale. In questo panorama, la scelta produttiva del biologico anche in zootecnia, è un grande progetto sostenuto e voluto dalla maggioranza dei cittadini europei, che vogliono un futuro sostenibile e più giusto. Isde ha voluto dare il suo contributo al dibattito sul Green Deal Europeo con una ricerca che, nel confrontare l’allevamento intensivo con quello biologico, interroga il mondo produttivo, quello dei consumatori e quello politicoistituzionale e chiede, documentandone l’urgenza, che il progetto europeo di trasformazione del modello di sviluppo agricolo sia effettivamente realizzato. Il biologico – conclude l’Isde – non deve essere greenwashing, ma deve diventare un cambio di paradigma affinché niente sia più come prima”.
1- Rischio di zoonosi: l’alta concentrazione di animali favorisce lo sviluppo di malattie comprese quelle che dagli animali possono passare all’uomo.
2 – Concorso nello sviluppo di Antimicrobico resistenza: le condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi, che, nell’abbassare il loro benessere ne abbassano anche le difese immunitarie, richiedono per il mantenimento della loro salute un alto intervento di medicalizzazione, particolarmente di antibiotici, contribuendo all’antibiotico-resistenza, trasmissibile all’uomo.
3 – Impatto sulle risorse alimentari umane: per lo sviluppo dell’allevamento intensivo non è più possibile che gli animali si accontentino del cibo fornito da zone marginali e non coltivabili dall’uomo. È necessario coltivare il cibo per gli animali su terreni che potrebbero produrre
alimenti per l’uomo con un indice di conversione peraltro assolutamente sfavorevole.
4 – Impatto ambientale delle coltivazioni per animali: sempre dalla FAO ci viene questo ammonimento: “La produzione di mangime e foraggio, l’applicazione del concime sulle colture, e l’occupazione delle terre dei sistemi estensivi, sono tra i principali fattori responsabili degli insostenibili carichi di nutrienti, fitofarmaci e sedimenti nelle risorse d’acqua del pianeta”.
5 – Consumo di risorse idriche: tutti gli animali allevati, con metodo intensivo o meno, consumano risorse idriche. L’imponenza, tuttavia, della produzione industriale di carne, al netto dell’acqua che ritorna nell’ambiente, rende comunque insostenibile questo consumo.
6 – Inquinamento idrico: questo problema si pone con qualsiasi tipo di allevamento ma il numero di animali allevati è direttamente proporzionale all’inquinamento.
7 – Uso delle terre e deforestazione: tra uso della terra come pascolo e uso della terra per la produzione di mangimi, nonostante ricerche e dati discordanti “il settore dell’allevamento rappresenta, a livello mondiale, il maggior fattore d’uso antropico della terra” (FAO) con conseguente degradazione del suolo e deforestazione.
8 – Perdita della biodiversità: l’occupazione delle terre per l’allevamento genera alterazione dei sistemi naturali con perdita della biodiversità “il settore zootecnico può essere considerato il principale fattore nella riduzione della biodiversità”.
9 – Emissioni di gas serra e particolato. Nel 2018 ISPRA pubblica i dati in un report: Focus sulle emissioni da agricoltura e allevamento indicando come questo contribuisca per un valore attorno al 5-7% dell’emissione di gas serra e serra equivalenti, e al 94% per l’emissione di ammoniaca con conseguente formazione di particolato. In merito però in uno studio più recente 2020, risulta un contributo maggiore per gas climalteranti. A livello globale, secondo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’agricoltura rappresenta circa un quarto delle emissioni antropiche totali (23% in media), con un trend in crescita, mentre si stima che il sistema agroalimentare complessivamente contribuisca per il 21% – 37%. All’interno del comparto agricolo, il settore zootecnico è responsabile del 70% di tutte le emissioni dirette a livello globale, senza contare le emissioni legate alle coltivazioni destinate
ad uso mangimistico (ad es. l’uso di fertilizzanti di sintesi). Le emissioni globali derivanti dall’allevamento sono paragonabili a quelle dell’intero settore dei trasporti (14,5% delle emissioni complessive di gas serra).
10 – Alterazione dell’equilibrio delle acque e del mare-pesca e acquacoltura: anche pesca e acquacoltura non sono da tralasciare in questa disamina per i danni generati agli ecosistemi marini e acquatici.
Ma anche dietro il termine “biologico”, possono nascondersi molte insidie e i rischi ambientali. “Per quanto attiene all’allevamento biologico si tratta dunque di una terminologia che non ha senso se non si contrappone ad esso l’allevamento intensivo con la conseguenza che, l’intensivo viene identificato con una negatività riconosciuta proprio dall’esigenza del biologico come opposto” sottolinea l’Isde. Ed invece “altrettanto necessario comprendere che cosa e chi sta bollando, vistando e autorizzando il biologico e con quali risultati. La confusione, creata dal proliferare di terminologie coniate per smarcarsi dall’identità dell’intensivo, quali biologico, etico, naturale, biodinamico, ecc., denota che siamo in presenza, con l’allevamento intensivo, di una violazione non solo dei parametri ambientali ma anche di quelli morali, e non solo per la questione del benessere animale, esclusivamente per un profitto di scala, al quale si vuole porre un limite in quanto ormai questo rappresenta un mondo svelato e conosciuto, tenuto all’oscuro per oltre 50 anni dai media”.
Per questo, conclude l’Isde, “riteniamo che la regolamentazione sanitaria nell’allevamento biologico, come impostata fino ad oggi, e nell’applicazione futura non possa essere validamente realizzata né a tutela dell’ambiente, né del benessere animale, né della salute dell’uomo, quando si esuli dal suo percorso in fase autorizzativa e dalla presenza, in fase di controllo, di un pubblico ufficiale privo di conflitti di interessi, con un ruolo sanitario a tutela del consumatore e non agricolo, a tutela del produttore, con competenze sanitarie per operare in scienza e coscienza, sia esso un veterinario di una azienda sanitaria locale o un tecnico ARPA”.