Repubblica. Una stangata sulle bollette dell’energia senza precedenti, a partire dal primo ottobre. Un aumento atteso, ma che andrà ben oltre le previsioni della vigilia: per le tariffe dell’elettricità il rincaro sarà fino al 40% rispetto ai prezzi dell’ultimo trimestre, mentre i costi per la fornitura di gas naturale saliranno del 31%. A darne annuncio è stato ieri il ministro della Transizione energetica Roberto Cingolani. Parlando a Genova, a un convegno della Cgil, l’ex presidente dell’Istituto italiano di tecnologia ha voluto lanciare un avvertimento e sottolineare come il tema è all’attenzione del governo, ora chiamato a trovare una soluzione per limitare l’impatto sulle bollette e, di conseguenza, sul bilancio di imprese a famiglie.
«Queste cose vanno dette – ha dichiarato il fisico chiamato dal premier Draghi a guidare l’ex ministero dell’Ambiente – e abbiamo il dovere di affrontarle». E così accadrà: il ministro dell’Economia Daniele Franco convocherà a giorni una riunione con l’Autorità dell’energia, responsabile della revisione trimestrale delle tariffe, per capire quali provvedimenti prendere. Lo ha di fatto confermato in serata lo stesso Cingolani: «Il governo è impegnato per la mitigazione dei costi delle bollette dovuti a congiunture internazionali e perché la transizione verso le energie più sostenibili sia rapida e non penalizzi le famiglie ».
Secondo i primi calcoli, per una famiglia media gli aumenti comporteranno fino a una maggiore spesa di 500 euro all’anno, 100 per l’elettricità e fino 400 per il gas. Per quest’ultima voce, l’impatto dipenderà dalla stagione invernale, in particolare nelle regioni del centronord, dove il metano si usa per riscaldare abitazioni e uffici.
Ma come si spiega quanto sta avvenendo nel mercato dell’energia? E quali provvedimenti potrebbe prendere il governo? Come ha ricordato il ministro «tutto questo succede perché il prezzo del gas a livello internazionale aumenta e succede perché aumenta anche il prezzo della CO 2 prodotta».
Sono due i fattori, quindi. Il primo è la conseguenza della ripresa dell’economia dopo la fine del lockdown e il progredire delle campagne vaccinali. Il rimbalzo delle produzione industriale ha creato una bolla dei prezzi delle materie prime, a partire dal gas, fondamentale per alimentare le centrali elettriche in tutto il mondo, dove sta sostituendo sempre di più il carbone. In particolare, in Asia: in questo momento in Cina si comprano partite di Gnl, il gas naturale liquido che viaggia via nave, a qualunque prezzo, portandole via all’Europa che si ritrova i depositi dove si conserva gas per l’inverno semivuoti, con l’eccezione di Italia e Francia. E fino a quando durerà questa situazione? A guardare i future, i derivati finanziari sulle materie prime si vede che i prezzi sono destinati a salire ancora fino a Natale, per cominciare la discesa e tornare a livelli pre-pandemia nella seconda metà del 2022.
Il secondo elemento è legato ai permessi per inquinare, che si pagano in base alla quantità di CO 2 emessa. Sono certificati gestiti dalla Ue, scambiati come prodotti finanziari. Ma le politiche più restrittive della Ue sulle emissioni, hanno portato il mercato ad aumentare la domanda dei diritti. E siccome i produttori di energia sono costretti a comprarli per compensare le emissioni, scaricano i costi in bolletta.
Come potrà intervenire il governo? A fine giugno, a fronte di un aumento del 9,9% per l’elettricità e del 15,3% per il gas naturale, l’esecutivo ha stanziato 1,3 miliardi da spalmare come compensazione sulle bollette. Ora il ministro Franco deve scegliere se intervenire con un nuovo stanziamento, ma a questo punto molto più ingente, oppure rivedere le varie voci in bolletta. Per esempio, spostando il peso di alcuni oneri – come gli incentivi alle rinnovabili, che pesano per oltre 11 miliardi all’anno – sulla fiscalità generale. Scelta non facile, perché in entrambi i casi significa pesare ulteriormente sui conti dello Stato.
Molta ripresa e poca energia. Nel risiko delle materie prime l’Europa si scopre fragile
Una “tempesta perfetta” spinge i prezzi dell’energia al rialzo nel mondo intero. È causata da elementi climatici imprevisti: una lunga bonaccia sul Mare del Nord; gli uragani tropicali che perturbano l’industria petrolifera nel Golfo del Messico. È rafforzata da un evento positivo: malgrado la variante Delta, grazie alle vaccinazioni la ripresa economica globale procede, e dunque crescono i consumi energetici. L’utopia di una transizione rapida verso un pianeta a “emissioni zero” si scontra con i limiti delle energie rinnovabili e un ritardo nel progresso tecnologico. Le aree che consumano più di quanto producano energia – come Europa e Cina – sono il lato debole nel nuovo “risiko energetico” che mescola economia, finanza, e grandi strategie geopolitiche. America e Russia sono sul fronte dei vincitori, con compagni di strada sorprendenti. L’uscita dal tunnel della pandemia riserva anche questa novità. La Federal Reserve, la Banca centrale europea e quella cinese: tutte concordano sul fatto che l’inflazione è rinata in buona parte perché sospinta da questo mini-shock energetico.
Tra gli elementi scatenanti di questa crisi, uno è quasi banale. Il vento ha soffiato molto meno del solito al largo delle coste del Regno Unito. È lì che si concentra la massima capacità eolica europea. Questo ci ricorda un limite delle fonti rinnovabili, la cui disponibilità non è costante: il vento può fare i capricci, il sole non alimenta le centrali quando è notte o il cielo si copre di nuvole. La capacità di stoccaggio di queste energie è ancora troppo limitata. Quando sono inferiori ai nostri bisogni accade quel che è successo negli ultimi mesi: vengono riattivate centrali a gas e perfino a carbone. L’aumento della domanda, le penurie di produzione, fanno schizzare al cielo i prezzi e prima o poi l’effetto si trasmette nelle bollette degli utenti. I vari mercati energetici sono vasi comunicanti: se s’inaridisce l’offerta in uno dei comparti tutti gli altri diventano più cari.
In questa congiuntura gli Stati Uniti sono tra i favoriti: hanno raggiunto da anni una semi-autosufficienza energetica grazie alle grandi risorse del loro sottosuolo. Di recente hanno ripreso a esportare gas liquefatto anche verso l’Europa, e una delle imprese esportatrici, la Cheniere Energy, ha visto aumentare del 47% il suo valore azionario dall’inizio dell’anno.
Il consumo mondiale di petrolio, secondo le proiezioni del cartello Opec che riunisce molti produttori, nel 2022 sorpasserà i livelli raggiunti nell’anno 2019, cioè pre-covid. Questo pone una seria ipoteca sugli impegni solenni proclamati da molti governi, di un azzeramento delle emissioni carboniche a medio termine. Si capisce meglio perché Xi Jinping non abbia mai voluto legarsi le mani con impegni di quel tipo. Si interpreta in modo diverso anche l’ultimo regalo che Joe Biden fece ad Angela Merkel prima dell’addio della cancelliera, e cioè la levata di alcune sanzioni americane contro il gasdotto Nord Stream 2. La Germania, con o senza i Verdi al governo, avrà ancora bisogno di gas russo, e perfino di carbone polacco, per qualche tempo: Biden ha adottato una “realpolitik energetica”, prendendo atto della fragilità di Berlino. Vladimir Putin da parte sua ha curato con abilità i buoni rapporti fra Mosca e l’Opec. Rinasce anche un dibattito sul nucleare, accantonato in maniera improvvida per la pressione delle opinioni pubbliche in Occidente e in Giappone, mentre la Cina lo considera come una delle fonti rinnovabili su cui scommettere. Se l’Europa rivela le sue fragilità strutturali, anche la Cina è a metà del guado: da una parte spinge sull’acceleratore dell’innovazione tecnologica e punta al predominio globale nell’auto elettrica; dall’altra deve continuare a ingoiare petrolio e carbone più di ogni altra nazione al mondo.
Nel risiko geopolitico dell’energia tornano in primo piano attori che controllano snodi nevralgici per la distribuzione delle vecchie e odiate energie fossili. Alcune Vie della Seta su cui avanzano gli investimenti cinesi sono corridoi terrestri che attraverso l’Asia centrale cercano di soddisfare la fame carbonica di Pechino, allentando la dipendenza dalle rotte marittime ancora presidiate da flotte militari Usa (Golfo Persico, Oceano Indiano, Stretto di Malacca). Ci sono subpotenze regionali molto attive nel disegnare e difendere con la forza militare i grandi snodi distributivi: insieme alle potenze del Golfo appaiono in questo club anche la Turchia e Israele. La rivoluzione verde dell’Europa è un progetto che poggia ancora su basi fragili. Una notizia eccellente come la ripresa economica è un brutale richiamo alla realtà dell’oggi: per riaprire le fabbriche ci vuole più energia subito, non domani. A Bruxelles come a Berlino, Londra Parigi e Roma, c’è ancora un deficit d’innovazione tecnologica, l’unico ingrediente che può far cambiare le regole del vecchio risiko. I prezzi che impazziscono sono la fotografia istantanea di queste strozzature.