Repubblica. Dall’inizio della pandemia, in Italia sono state sequestrate poco meno di 400mila mascherine al giorno, 190 milioni in tutto di pezzi taroccati, fallati, non in grado di fare quello che promettevano: proteggere dal contagio chi le indossava. In diciotto mesi imprenditori senza alcuna esperienza, faccendieri, politici, “amici di”, si sono lanciati nel grande business, intascando cifre che non lasciano spazio a troppe interpretazioni: 676 le persone denunciate, poco meno di 800 le sanzioni amministrative già emesse per un giro di affari che, secondo le stime della Guardia di finanza, sfiora i due miliardi. I numeri sono proprio quelli del Comando generale della Guardia di finanza che, a diciotto mesi dall’inizio delle misure per arginare la pandemia, ha tirato una prima linea su quello che, da subito, era sembrato a tutti gli addetti ai lavori un grave pericolo. E che oggi, inevitabilmente, è diventata una certezza: il disastro è stato anche un grande affare.
La mascherina è, in sé, l’oggetto che rappresenta meglio il business del Covid. Perché, è vero, c’è stato il grande scandalo degli ospedali d’emergenza (sui cui lavorano le procure di mezza Italia), quello sugli apparecchi sanitari. Ma le mascherine sono servite a tutti. E all’improvviso. Lo spazio era enorme: lo sanno alla Protezione civile, che comprò un lotto fallato, sulla fiducia, dalla società di import ed export dell’ex presidente della Camera, Irene Pivetti. Lo sa l’ex commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, che ha acquistato una partita importante di mascherine (1,25 miliardi di euro) dalla Cina, con l’ok del Cts, oggi al centro di un’inchiesta della procura di Roma. Lo sa la Consip, la centrale pubblica degli acquisti che, pronti- via, fu costretta ad affrontare una società che non mantenne quello che aveva promesso. Lo sanno le Regioni, dalla Lombardia al Lazio, sino alla Puglia, che in emergenza hanno dovuto acquistare quello che c’era sulla piazza. Ma non sempre in piazza c’era materiale decente.
Lo sa la Guardia di finanza che nelle decine di inchieste sparse per l’Italia ha trovato ogni cosa: ci sono le famiglie di ’ndrangheta a Reggio Calabria che (con la collaborazione di un consigliere regionale) avevano preso forniture di mascherine e sanificazioni nella Asl. C’è il nome di Luigi Bisignani (non è indagato) che torna nelle indagini romane, dove c’è Roberto de Santis, già dalemiano di strettissima osservanza (e c’è anche l’ex presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, anche lui non toccato da alcuna indagine, che si era speso per recuperare respiratori cinesi, poi però rivelatisi fallati). A giugno del 2020 la Guardia di finanza sequestra, per esempio, a Prato 10 milioni di mascherine. Alcune erano già finite nelle sale operatorie, altre erano date ai sanitari nel reparto. Peccato che si trattava di mascherine fallate, come lo stesso Istituto superiore della sanità aveva stabilito: per farlo alcuni imprenditori, italiani e cinesi, avevano organizzato un sistema di scatole cinesi, per evitare di risalire la catena di produzione. Le mascherine ve nivano realizzate con macchine assolutamente non idonee, «prodotte — ricostruisce la Finanza — con tessuti privi di tracciabilità» e con un Qr code, obbligatorio per risalire alla certificazione, «che in realtà era inesistente».
Tra febbraio e maggio di quest’anno a Gorizia, il nucleo di polizia finanziaria delle Fiamme gialle ha invece sequestrato 115 milioni di mascherine: erano state acquistati dalla struttura del Commissario straordinario per l’emergenza (gestione Arcuri), sempre con il via libera del Cts. Erano destinati ai medici e al personale sanitario del Friuli. «E sono risultati — scrivono i finanzieri — del tutto carenti dei requisiti necessari e, in alcuni casi, è stata riscontrata la capacità filtrante addirittura 10 volte inferiore rispetto alle promesse».