I test rapidi potrebbero avere un’affidabilità di molto inferiore a quella dichiarata dai produttori. E, se fosse vero, non è escluso che questo possa aver favorito la seconda ondata di contagi che nei mesi scorsi ha piegato il Veneto.
Il Corriere del Veneto- Sospetti, almeno per ora. Ma tanto pesanti da aver spinto la procura di Padova ad aprire un’inchiesta che punta proprio a capire se il «tampone rapido» – quello che in pochi minuti è in grado di rilevare la presenza del coronavirus nel muco nasale – sia in grado di rispettare le promesse delle aziende farmaceutiche.
L’indagine è affidata al sostituto procuratore Benedetto Roberti e sta proseguendo da settimane nel più assoluto riserbo. Ma negli ultimi giorni, specie in ambienti ospedalieri e universitari, hanno però iniziato a circolare voci sulla convocazione di persone «informate dei fatti» da parte della procura. Voci che si sono fatte ancor più insistenti dopo la puntata di Report andata in onda lunedì sera e che si è focalizzata anche sulla possibile connessione tra l’impennata di morti e ricoverati registrata nei mesi scorsi nella nostra regione, e la spinta a un impiego massiccio dei test antigenici rapidi. Tra le persone già sentite dagli investigatori c’è anche il microbiologo dell’Università di Padova, Andrea Crisanti, autore del primo studio che evidenziava la scarsa sensibilità del prodotto.
Lo scienziato avrebbe ribadito agli inquirenti ciò che ripete pubblicamente da mesi. Già a ottobre 2020 spiegò che «i test rapidi antigenici utilizzati in Veneto per il tracciamento del Coronavirus si lasciano sfuggire tre positivi ogni dieci, con una percentuale di falsi negativi che si attesta intorno al 30 per cento». Non solo: il mese scorso ha diffuso un nuovo studio in base al quale questi prodotti non sono in grado di rilevare alcune forme mutate del virus. «Si ipotizza quindi – aveva spiegato Crisanti – che l’utilizzo di massa dei test antigenici rapidi possa involontariamente favorire la diffusione di varianti non rilevabili, contribuendo così alla loro libera circolazione e all’inefficacia del loro contenimento». Perché una cosa è evidente: se il contagiato è convinto di non avere il Covid, non si auto-isolerà finendo così per trasferire il virus a chi gli sta intorno. E da qui è facile immaginare come l’inchiesta della magistratura possa riscrivere la storia della gestione della pandemia in Veneto, portando alla luce gravi responsabilità visto l’impiego diffuso che si fa dei kit rapidi (si arrivò perfino alla modalità drive-in), specie all’inizio della seconda ondata.
L’ipotesi sulla quale si sta concentrando la procura di Padova, almeno per ora, ruota intorno a un’eventuale frode nelle pubbliche forniture, e l’intenzione è quindi di verificare se le ditte produttrici abbiano venduto in Veneto dei kit meno precisi di quanto dichiarato, che quindi darebbero una percentuale di falsi negativi al Covid decisamente più elevata di quanto dichiarato ufficialmente. Uno scenario che, se accertato, vedrebbe quindi la Regione (ma anche ospedali e tante cliniche private che in questi mesi li hanno proposti a medici e pazienti) vittima di un raggiro basato su dati falsati. Ma l’obiettivo degli inquirenti, ovviamente, è anche di capire eventuali complicità, accertando se qualcuno fosse a conoscenza della scarsa sensibilità del prodotto e ne abbia ugualmente promosso l’acquisto e l’utilizzo.
Al centro dei sospetti ci sono soprattutto i kit (che cominciarono a circolare a settembre) di prima e seconda generazione, mentre molti scienziati oggi sembrano concordi nel ritenere gli ultimi ritrovati (quelli di terza generazione) più affidabili, anche se non al 100%.
È evidente che la conferma sulle reali performance dei test antigenici rapidi può arrivare solo da uno studio di laboratorio. La procura di Padova non potrà che affidarsi a un perito per stabilire, una volta per tutte, quale sia la loro effettiva efficacia.