di Giuseppe Pignatone, Repubblica. “Si tratta di un atto dovuto”. Così, nelle settimane scorse, è stata spiegata l’iscrizione di alcune persone — soprattutto medici e infermieri — quali indagati per il reato di omicidio colposo, a seguito della morte improvvisa di soggetti cui era stato da poco somministrato il vaccino AstraZeneca. L’espressione “atto dovuto” è ormai diventata una formula di routine che necessita però di qualche approfondimento.
La legge non fornisce indicazioni precise sui criteri da seguire e l’articolo 335 del codice di procedura penale indica soltanto che il Pubblico ministero deve provvedere immediatamente a iscrivere “il nome della persona alla quale il reato è attribuito”. Questa frase, sicuramente poco felice, ha originato la tesi, ormai largamente diffusa anche negli uffici di Procura, che l’obbligo di iscrizione sorge per il solo fatto che in un atto di polizia giudiziaria o di un qualunque cittadino, come — per esempio — una querela, venga indicato qualcuno come responsabile di un reato, che gli viene così “attribuito”. In questo modo, però, si affida alla polizia giudiziaria, e anche ai privati, il potere di determinare l’iscrizione di una persona quale indagata, mentre si tratta di un compito delicatissimo che rientra unicamente tra i poteri e le responsabilità del Pm.
Dall’iscrizione, infatti, cominciano a decorrere i termini delle indagini e derivano precise garanzie in relazione a una serie di atti — come perizie e consulenze tecniche — per le quali è necessario dare prima avviso all’indagato e/o al suo difensore.
La giurisprudenza prevalente della Cassazione ha dunque ritenuto che l’iscrizione non può essere la conseguenza automatica dell’indicazione fornita dalla polizia giudiziaria o dal denunciante e che ad essa il Pm deve procedere solo se e quando a carico di un soggetto identificato emergano “specifici elementi indizianti”. Solo in questo caso l’iscrizione è possibile, e quindi “dovuta”.
Non vi rientrano, invece, i casi in cui vi sono meri sospetti né quelli che richiedono altri accertamenti per chiarire il ruolo di molti possibili responsabili o quale sia l’effettiva causa di un evento. Situazioni piuttosto comuni quando l’indagine riguarda enti pubblici o società private di grandi dimensioni e a organizzazione complessa, ambiti in cui è inevitabile un sistema di deleghe. In questi casi non si può, per esempio in relazione a un infortunio sul lavoro o a un incidente connesso alla cattiva manutenzione delle strade, considerare automaticamente indagato il sindaco o l’amministratore delegato.
Allo stesso modo non si dovrebbe, di regola, procedere all’iscrizione per colpa medica quando un paziente muore dopo essere stato curato, in un breve arco di tempo, da più medici in più ospedali. In questi casi, per i quali si è proceduto all’iscrizione di decine di medici, è infatti difficile affermare che esistano già indizi specifici.
Analoghe considerazioni sembrano possibili, sulla base di quanto riferito dai media, per alcuni dei casi di morte citati all’inizio. Sarebbero stati infatti considerati indagati di omicidio colposo l’amministratore delegato di AstraZeneca Italia, alcuni medici e addirittura l’infermiere che ha proceduto all’inoculazione: la stessa diversità delle posizioni degli interessati lascia pensare che esistano al momento solo meri sospetti a fronte di una serie di possibili cause alternative.
Al di là dei casi specifici, va sottolineato che la prassi giudiziaria allarga di molto l’area dell’iscrizione anche per non ledere in alcun modo il diritto di difesa nei termini già indicati. Uno scrupolo in sé lodevole, ma spesso fuori luogo e che finisce col danneggiare in modo significativo l’immagine e la vita stessa di persone per le quali in realtà non è ravvisabile alcun indizio di responsabilità.
Come ha sottolineato la Corte costituzionale, la condizione di indagato, una volta nota, produce conseguenze negative sia sotto il profilo professionale — specie per i pubblici dipendenti, ma non solo — sia sotto quello reputazionale. Ed è bene sottolineare che nella quasi totalità dei casi la diffusione della notizia dell’avvio di un’indagine non avviene in modo illecito, perché per legge il segreto viene meno con l’avviso all’indagato o al suo legale del compimento di un atto processuale cui il difensore ha diritto di assistere, come — per esempio — l’autopsia nei casi da cui siamo partiti. Di più: la parte offesa che presenta una denunzia ha diritto di sapere (tranne che per i reati più gravi) se e nei confronti di chi il Pm abbia disposto l’iscrizione e può poi, del tutto lecitamente, diffondere l’informazione ricevuta.
Mi sembra allora opportuno che il legislatore fissi, nell’imminente riforma del processo penale, criteri chiari per l’iscrizione, recependo le precise indicazioni della Cassazione. L’eliminazione delle iscrizioni non necessarie contribuirebbe anche a far diminuire i casi di persone danneggiate, senza alcuna loro responsabilità, dalla diffusione della notizia di un atto che, paradossalmente, il codice prevede a garanzia del cittadino e che non significa affatto anticipazione di un giudizio di condanna.
Si parla spesso, a questo proposito, di “gogna mediatica”, che si dovrebbe far cessare: ma su questo è bene non coltivare troppe illusioni. Nell’opinione pubblica prevale da tempo un atteggiamento che indulge al sospetto e alla pretesa di una giustizia immediata che non collima con i tempi fisiologici di un processo, per quanto bene e celermente sia condotto. Si tratta di fenomeno culturale ormai consolidato e non sarà una maggiore cautela nelle iscrizioni — peraltro necessaria — o in altre attività di indagine, a determinarne la fine.