L’Italia ha fatto passi avanti sul numero di donne in Parlamento (sono il 35,6%) e di dirigenti “rosa” (38,4%). È invece ancora in fondo alla classifica Ue per quota di donne con elevata istruzione (20,1%) e per tasso di occupazione femminile (50,1% nel 2019, sceso a 48,5% nel terzo trimestre 2020, contro il 67,5% dei maschi). Su questi ritardi, già consolidati prima della pandemia, rischia di avere un impatto negativo la situazione economica che si è creata dopo il Covid-19.
La Fondazione Leone Moressa ha elaborato per Il Sole 24 Ore del Lunedì «un indice europeo di valorizzazione femminile», basato sull’analisi di otto indicatori: quattro relativi ai livelli di occupazione e alla fecondità (tasso di occupazione, di disoccupazione e di part-time involontario femminili, tasso di fecondità totale) e quattro relativi ai livelli di partecipazione (dirigenti e membri del Parlamento donne, lavoratrici part-time sul totale delle occupate, percentuale di donne con istruzione elevata). Ne emerge un indice che misura, su una scala da zero a 100 (dove 100 corrisponde al Paese con la maggiore valorizzazione femminile) la capacità dei vari Paesi di offrire alle donne un tessuto sociale che permetta loro di esprimersi sia nel lavoro, sia nella gestione della famiglia.
Il risultato non è dei più incoraggianti: i Paesi Bassi si piazzano primi in classifica, centrando il 100, seguiti da Svezia, Regno Unito e Danimarca. L’Italia si ferma a quota 31: penultima, prima della Grecia, nella Ue a 28. Si conferma evidente la frattura fra il Nord e il Sud dell’Europa: si attestano su un indice di valorizzazione femminile inferiore a 50 Slovacchia, Bulgaria, Croazia, Malta, Ungheria, Spagna, Cipro, Romania, Italia e Grecia.
Nei Paesi a più alta valorizzazione femminile le donne entrano nel mercato del lavoro, riescono ad avere ruoli di prestigio e a conciliare più facilmente gli impegni fuori casa con la famiglia. Questo si riflette anche sul tasso di fecondità, confermando la relazione positiva tra occupazione femminile e natalità: in Svezia, ad esempio, l’occupazione femminile è al 75,4% e il tasso di fecondità totale è dell’1,76% (contro l’1,29% dell’Italia: fanno peggio solo Spagna e Malta).
In diversi Paesi del Nord Europa l’alta partecipazione femminile al lavoro passa anche per un’ampia diffusione del part-time: è così nei Paesi Bassi, in Austria e Germania. Nei Paesi dove le donne lavorano meno, come Italia, Grecia, Spagna, il part-time è per la maggior parte involontario: in Grecia, la quota di donne in part-time che, avendone la possibilità, lavorerebbero per più ore è del 64,1 per cento. In Italia è del 61,2 per cento.
L’Italia è svantaggiata anche sul piano delle donne con un livello elevato di istruzione: sono una su cinque. In cima a questa classifica si trovano Estonia, Cipro, Finlandia, Lituania e Svezia. Un elevato livello di istruzione non si traduce sempre, però, in un’ampia partecipazione delle donne alla vita politica o alla dirigenza: su questi fronti ad esempio Estonia, Ungheria e Malta fanno peggio di noi.
L’impatto del Covid
Le donne occupate in Italia a dicembre 2020 erano 9,53 milioni: 312mila in meno rispetto a un anno prima. La difficoltà di conciliare il lavoro ai tempi della pandemia con i carichi familiari potrebbe aver determinato un forte svantaggio anche per le lavoratrici dipendenti. Le dimissioni delle lavoratrici madri convalidate dall’Ispettorato del lavoro sono state 37.611 nel 2019, il 73% delle convalide relative ai neogenitori. Manca ancora il dato ufficiale del 2020, ma il trend innescato dalla pandemia appare quello di un netto peggioramento. «Tra marzo e dicembre 2020 – spiega Carolina Casolo, consulente del lavoro e fondatrice di Sportello mamme, una start up nata nel 2018 per affiancare le lavoratrici in occasione della maternità – il numero di pratiche istruite sulle dimissioni volontarie è triplicato. A gennaio 2021 siamo arrivati a “lavorare” il quadruplo delle domande rispetto a gennaio 2020. Le neomamme preferiscono dimettersi e chiedere la Naspi piuttosto che confrontarsi con la rigidità degli orari di lavoro e l’assenza di aiuti nella gestione dei figli».