Quasi il 20% all’inizio di febbraio. Intorno al 25% oggi. A fine mese la variante inglese avrà raggiunto il 50%, cioè sarà presente in un nuovo contagiato su due. A marzo il tavolo sarà tutto suo. «Arriverà a essere prevalente, grazie alla maggiore capacità di infettare. Sars-Cov-2 e la variante inglese diventeranno tutt’uno. Per i ceppi del passato ci sarà sempre meno spazio».
Alessandro Vespignani, l’epidemiologo computazionale che dirige il laboratorio di modellistica dei sistemi biologici alla Northeastern University di Boston, ha tracciato l’andamento della variante inglese in varie città europee, fra cui Roma e Milano. L’aumento da un lato «non si tradurrà automaticamente nelle curve ripide viste in Gran Bretagna. Molto dipenderà da noi e dalla capacità di mantenere l’Rt sotto controllo». Ma dall’altro, prosegue Vespignani, «le prime notizie che arrivano dalla Gran Bretagna sulla sua severità non sembrano tranquillizzanti. Dati preliminari di questi giorni indicano che possa causare una malattia più grave».
Si può domare il ceppo inglese?
«L’aumento della prevalenza non si può frenare, è solo questione di tempo. Essendo più contagioso, il ceppo inglese tenderà a soppiantare gli altri. Ma la prevalenza è solo un numero relativo: indica quanti dei nuovi contagi sono causati dalla variante britannica. Quel che possiamo fare è ridurre il numero assoluto dei casi. Se riusciremo a tenerlo basso, la situazione resterà contenibile. Ma è importante agire adesso. Le prossime due settimane saranno quelle in cui probabilmente la prevalenza andrà dal 25% al 50%».
Cosa dobbiamo fare?
«Essere cauti con le riaperture. Guardare con attenzione ogni rialzo dell’indice Rt. E monitorare la diffusione delle varianti. La Gran Bretagna effettua il sequenziamento del genoma del 5% dei tamponi positivi. È un obiettivo ambizioso, ma un po’ più d’ambizione è quel che serve anche oggi in Italia. La rete di monitoraggio va fatta ora. Dobbiamo sapere come si muove l’epidemia e in caso adeguare i vaccini alle varianti.Un buon laboratorio per il monitoraggio genetico, anche in futuro, ci permetterà di tenere sotto controllo eventuali malattie emergenti e la stessa influenza».
In base al campionamento del 3-4 febbraio la prevalenza della variante inglese era al 17,8%.
«Le nostre curve, disegnate prima di quel risultato, danno un andamento analogo. Questi monitoraggi andrebbero ripetuti tutte le settimane o 10 giorni. Lo si fa in Gran Bretagna, in Francia e Danimarca».
Perché un aumento della prevalenza della variante inglese non vuol dire automaticamente aumento dei contagi?
«Possiamo provare a tenere sotto controllo l’Rt e il numero assoluto dei contagi. Ma il ceppo britannico ci renderà la vita più dura. A causa della sua maggiore contagiosità, le misure tradizionali potrebbero non essere sufficienti. E il rigore va messo in atto anticipando l’epidemia. È oggi che la variante inglese guadagna terreno».
Faremo in tempo con i vaccini?
«Non faremo in tempo a creare un’immunità di gregge prima che la variante inglese diventi prevalente, ma vaccinando le persone più fragili ridurremo casi severi e decessi. Non vanno trascurate le campagne vaccinali nel resto del mondo, altrimenti vedremo tornare come boomerang nuove varianti dai paesi in cui la circolazione resta intensa e genera ulteriori mutazioni».
La variante inglese si diffonde di più fra i bambini?
«Non lo sappiamo. È stato osservato un certo aumento di casi, ma è vero che molte scuole sono state riaperte».
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