Martedì della prossima settimana al Parlamento europeo si aprirà la discussione se abolire o no il divieto – attualmente in vigore – di definire appunto “carne” quello che carne non è. Finora, questo divieto era sancito dall’emendamento 165 dell’aprile 2019. Ma se Strasburgo decidesse di cambiare le carte in tavola, chiunque potrebbe chiamare “hamburger” una polpetta di soia, o “salsiccia” un prodotto di sintesi. Per questo la Copa-Cogeca, che riunisce tutte le principali organizzazioni agricole europee, ha lanciato la campagna “Ceci n’est pas un steak”, letteralmente questa non è una bistecca. La lobby degli agricoltori ha molti proseliti al Parlamento Ue, ma deve pur sempre scontrarsi con un’altra lobby potente, quelle delle grandi multinazioni come Nestlé o Unilever, che sono entrate nel business della carne sintetica e vorrebbero pubblicizzare come ”carne” il loro nuovi prodotti.
L’interesse, da entrambe le parti, è forte perchè il business dell’hamburger-non-hamburger è di quelli in decisa crescita. L’anno scorso in Europa le vendite di carne sintetica hanno sfiorato il miliardo di euro, con 208 milioni di pezzi venduti: rispetto a due anni prima, il mercato è già cresciuto del 38%. Numeri alti, per un fenomeno che soltanto pochi anni fa sembrava pionieristico, con Beyond Meat che in America faceva capolino in Borsa e un hamburger impossibile che costava centinaia di dollari. Oggi, di dollari in Borsa, Beyond Meat ne capitalizza dieci miliardi e il burger sintetico costa appena 6 euro e 90.
In Europa la carne sintetica rappresenta solo l’1% di tutta la carne venduta. Ma sono parecchi gli analisti pronti a scommettere che potrebbe replicare le performance del mercato del latte di soia: che è nato come prodotto di nicchia, ma in pochi anni si è guadagnato una fetta di mercato del 14%. Fatte le debite proporzioni sul mercato della carne, per gli hamburger sintetici si tratterebbe di una fetta potenziale di 12 miliardi di dollari.
Ecco perchè, su questa barca, sono saliti in tanti: oltre a Nestlé e Unilever, ci sono Findus, Roquette, McDonald’s, Burger King. La stessa catena “The good burger”, che in Italia ha solo un punto vendita, a Roma, nel resto del continente ne ha già 150. Eppoi, qua e là sono spuntate parecchie associazioni come Eapf o Green protein Alliance, più o meno sostenute dalle multinazionali, che plaudono alla sostenibilità ambientale della carne sintetica. I dati sembrano dare loro ragione: -99% di consumo dell’acqua, -93% di consumo del suolo, -50% di energia e -90% di emissioni di gas serra.
«Molti consumatori non sanno però che la maggior parte di questi hamburger-non-hamburger sono sviluppati in laboratorio da materiale sintetico. Non sono fatti sempre e solo con proteine vegetali ricavate dai legumi, sono creazioni di laboratorio», ricorda Massimiliano Giansanti, che è presidente dell’italiana Confagricoltura ma che è stato anche appena nominato vicepresidente proprio del Copa-Cogeca. «Porto avanti questa battaglia personalmente – dice – perché credo che tutti noi dobbiamo guardare con interesse alla ricerca quando viene applicata al miglioramento dell’agricoltura, non quando propone alternative ai prodotti dell’agricoltura. Dietro un prodotto agricolo c’è il lavoro dell’uomo e il rispetto della natura».
Per Giansanti, la battaglia in Europa contro l’uso improprio della parola carne si intreccia a doppio filo con quella per le etichette nutrizionali, che vede l’Italia storicamente contraria a quelle a semaforo: «I consumatori dei paesi evoluti – dice Giansanti – sono troppo influenzati dalle campagne di marketing delle multinazionali, le quali attribuiscono valori nutrizionali a questi prodotti di sintesi che non sono corretti. Paradossalmente una pizza-non-pizza, cioè sintetica, avrebbe l’etichetta col semaforo verde, mentre una pizza tradizionale con la mozzarella avrebbe semaforo arancione».