I numeri di questa lotta impari si leggono nel report di monitoraggio settimanale dell’Istituto superiore di Sanità che nella sua versione integrale (riservata) mette in fila anche gli indicatori sulla «Resilienza dei servizi sanitari preposti nel caso di una recrudescenza dell’epidemia». Tra questi il Sole 24 ore ha potuto anche leggere i numeri relativi alle risorse umane dedicate al contact-tracing e «alle attività di prelievo/invio ai laboratori di riferimento e monitoraggio dei contatti stretti e dei casi posti rispettivamente in quarantena e isolamento». Numeri che mostrano quanto il fianco sia scoperto in molte Regioni. Il Governo la scorsa primavera aveva fissato una soglia minima di tracciatori: almeno uno ogni 10mila abitanti. Un’asticella minima ma insufficiente di fronte ai numeri di oggi che addirittura tre Regioni, a 8 mesi dall’emergenza, ancora non hanno superato: si tratta dell’Abruzzo che conta 111 tracciatori (0,9 per 10mila abitanti), della Calabria che ne ha solo 141 (0,7) e del Friuli con 99 risorse (0,8). Spiccano come sempre le grandi differenze tra le Regioni: la Basilicata è messa meglio di tutti (7,6 tracciatori ogni 10mila abitanti), ma in cima ci sono anche il Veneto da sempre leader nel tracciamento (2,8), Trento (2,7) e l’Umbria. Tra le grandi Regioni il Lazio conta oltre mille tracciatori (1,8), la Lombardia 1310 (1,3), l’Emilia 553 (1,3) e la Campania 623 (1,1).
Eppure le Regioni e il Governo che ha stanziato le risorse per le assunzioni con il decreto rilancio di maggio scorso hanno avuto tutta l’estate per prepararsi alla minaccia di una seconda ondata potenziando queste prima linea di difesa, quella del tracciamento che insieme al testare (tamponi) e al trattare sono le prime armi contro il virus. Armi che ora sono spuntate e invece potevano essere molto più affilate: a giugno scorso i tracciatori erano 8.966 , dopo più di tre mesi sono aumentati solo di 275 unità. Troppo poco.
Il caso lombardo – e soprattutto milanese – è particolarmente critico. Il motivo è che se da una parte sono migliorate le performance delle terapie intensive, dall’altra parte la medicina territoriale è ancora molto fragile, nonostante da maggio siano stati messi a disposizione dal governo 202 milioni di stanziamenti, per la sola Lombardia, per fare bandi e assumere personale.
Ora la Lombardia dispone di circa 980 posti stabili in terapia intensiva, ma probabilmente riuscirebbe in poco tempo ad attivare fino a 1.800 posti, considerando che durante i mesi più drammatici sono stati comprati respiratori e monitor (e l’ospedale della ex Fiera di Milano, con 200 posti potenziali, non è stato smantellato). Tuttavia rimane il nodo del territorio. I problemi della scorsa primavera stanno riemergendo adesso, forse anche in modo più evidente visto che in questo momento non ci sono nemmeno grandi spazi dove ospitare in isolamento i positivi “a bassa intensità”, che non necessitano di cure ospedaliere ma che devono rimanere in quarantena per non riportare il Covid in famiglia. A Milano invece durante i mesi del lockdown erano stati almeno messi a disposizione due grandi hotel, mentre adesso gli unici luoghi utilizzati sono l’ospedale militare di Baggio e quello dell’aeronautica militare a Linate.
A Milano e nel suo hinterland, dove ogni giorno vengono registrati oltre mille positivi, ci sono solo 14 medici delle Usca, le unità mediche che servirebbero a controllare i malati in casa. Il fabbisogno stimato invece sarebbe di almeno 130 medici per i 3 milioni di abitanti dell’area.
I dottori dovrebbero inoltre essere supportati da infermieri familiari a domicilio: ne servono 520 per la città metropolitana di Milano (216 nel solo capoluogo), ma al momento le aziende ospedaliere pubbliche non hanno istituito questo tipo di figure. Non mancano le accuse politiche sul punto da parte dell’opposizione: «L’assistenza domiciliare in Lombardia è privata convenzionata, quindi il pubblico per questo non può fare assunzioni – dice la democratica Carmela Rozza – Ma ora chi va nelle case? Peraltro i concorsi non vengono centralizzati a livello regionale, li fanno le singole Asst, quindi è difficile controllarne l’andamento».
Al problema dell’assistenza territoriale si unisce anche quello dei prossimi pensionamenti di molti dottori di medicina generale. Un numero ancora poco chiaro ma che sta allertando il vertici della sanità lombarda. Insomma, con i contagi che aumentano, sembra una tempesta perfetta.
Tempesta dalle dinamiche peraltro non ben tracciate, pertanto imprevedibili. L’ipotesi di mini-lockdown di quartiere – per il Comune di Milano ovviamente più auspicabili di un lockdown cittadino – è difficilmente praticabile, visto che la tracciabilità del coronavirus è ormai in gran parte perduta. Uno dei motivi è la scarsità numerica, ridotta a poche unità, del personale addetto a mappare i contatti dei positivi. Soprattutto a Milano.