Repubblica. Un cambio di rotta era già nei piani della leadership comunista da mesi, con una riapertura, graduale, a partire probabilmente dalla primavera del 2023. Ma l’ondata di infezioni che ha iniziato a travolgere il Paese a novembre nonostante la strategia della tolleranza zero e le proteste senza precedenti che hanno scosso tutta la Cina un mese fa hanno contributo a dare una accelerata ai piani del Dragone. Una riapertura ora troppo repentina, però, senza una adeguata preparazione.
Pechino non poteva certo sacrificare la tenuta del Partito cercando di fermare un virus, il Covid, che ne stava pericolosamente alimentando un altro: quello della contestazione nelle piazze. In strada a Shanghai a fine novembre qualche coraggioso ha osato pure chiedere le dimissioni del segretario generale Xi Jinping. Il secondo aspetto riguarda i numeri ufficiali di contagi e decessi: verso la metà e la fine di novembre c’è il sospetto che le infezioni corressero molto più delle statistiche. Il Partito si era accorto che Omicron era più veloce dei lockdown e delle quarantene: rimodellare e di fatto abbandonare l’utopia dello zero-Covid “con onore”, ribaltando la propaganda ufficiale e smettendo di comunicare i dati, era un modo per salvare la faccia dopo tre anni di “guerra del popolo” al virus con costi economici, e sociali, altissimi. La via verso la riapertura era già stata tracciata, ma Xi ha dovuto premere sull’acceleratore. Le nuove ondate di infezioni di quest’autunno avrebbero potuto essere contrastate solo con chiusure nazionali così dure come quelle imposte ai 25 milioni di residenti di Shanghai per più di due mesi questa primavera. I costi economici sarebbero stati però enormi e il Paese era allo stremo.
Solo che inevitabilmente, con la popolazione che finora non era mai stata esposta massicciamente al virus, con un tasso di vaccinazione tra gli anziani basso, e con i richiami che sono partiti a rilento, il Covid ha trovato praterie qui, in questo che oggi è il focolaio più grande del mondo. Secondo un nuovo studio di Airfinity, appena pubblicato, in mancanza di dati ufficiali certi, i decessi sarebbero 9mila al giorno. Dal primo dicembre i morti avrebbero già superato i centomila, i contagiati sarebbero 18,6 milioni. Il primo picco di infezioni, secondo il report, ci sarà il 13 gennaio con 3,7 milioni di casi al giorno. Entro la fine di aprile si prevedono 1,7 milioni di morti.
Tre dosi di un vaccino cinese forniscono una protezione ragionevole contro le malattie gravi e la morte. Ma ancora molte persone sono state vaccinate così tanto tempo fa che l’efficacia del vaccino si sta esaurendo. Con l’aumento dei casi all’inizio di dicembre, la Cina ha intensificato gli sforzi. Il numero medio di dosi somministrate è passato da meno di 1 milione al giorno a oltre 3 milioni il 21 dicembre. Troppo in ritardo, però.
Perché il Paese in tutto questo tempo non si è preparato meglio, invece di spendere risorse enormi per sistemi di quarantena, tamponi quasi quotidiani obbligatori e un sistema capillare di lockdown? Per gran parte della pand emia la Cina è riuscita a controllare il virus cullandosi in un falso senso di sicurezza. Poco è stato fatto invece per prepararsi all’inevitabile ondata che sarebbe arrivata quando il Paese avrebbe posto fine alle restrizioni. Il tasso di vaccinazione tra gli anziani è ancora basso: soltanto il 40% degli over 80 ha tre dosi. A differenza del resto del mondo, la Cina ha iniziato le sue campagne negli scorsi anni al contrario: prima le persone in età lavorativa. A questi si aggiungono gli altri problemi che affliggono il sistema sanitario cinese, come la carenza di posti letto per le unità di terapia intensiva. E l’ostinazione a non voler approvare l’importazione di vaccini a tecnologia mRNA.
Nelle prossime settimane milioni di persone torneranno nelle loro città per il nuovo anno lunare. Diffonderanno il virus nelle aree rurali con sistemi sanitari poco efficienti. È probabile che si verifichino più ondate. Per quanto la situazione sia grave oggi in Cina, il vero banco di prova deve ancora arrivare.