Un’ondata di contagi da coronavirus in Cina, gli ospedali pieni e spesso allo stremo delle forze, le restrizioni in aeroporto per chi arriva dal gigante asiatico. Quasi tre anni dopo, il mondo ha un senso di déjà vu. Ancora una decina di giorni e poi Pechino tornerà ufficialmente (e inaspettatamente, se si pensa a quanto accadeva fino a poche settimane fa) all’era pre pandemica. Il governo ha declassato il Covid a malattia infettiva di categoria B. Ciò significa niente più quarantena centralizzata per i malati, tracciamento dei contatti stretti, designazione di aree ad alto e basso rischio. Finite le ore in fila ai centri per i tamponi, i cinesi potranno sottoporsi ai test su base volontaria.
Dall’8 gennaio via anche le restrizioni ai confini: stop alla quarantena centralizzata e ai tamponi all’ingresso. Verranno ripresi i voli internazionali e saranno facilitate le richieste di visto per motivi d’affari, studio e ricongiungimenti familiari. Dopo tre anni di difficoltà a rinnovare i passaporti e ripetuti confinamenti in casa, ai cittadini cinesi sarà consentito viaggiare all’estero.
I gruppi imprenditoriali stranieri presenti in Cina sperano che la riapertura possa ricostruire la fiducia degli investitori internazionali. E l’obiettivo del Partito comunista sembra proprio quello di arrivare il più presto possibile al picco di contagi per poi far ripartire l’economia. Ma il problema sono gli enormi rischi che si correranno prima di riuscirci. Secondo presunte stime della Commissione nazionale cinese per la salute citate dal Financial Times, potrebbero esserci stati quasi 250 milioni di contagi nei primi 20 giorni di dicembre, con 37 milioni di nuovi casi solo il 20 dicembre. Si tratterebbe di circa il 18% della popolazione e della più ampia ondata globale da inizio pandemia. Secondo un indice del motore di ricerca Baidu, le ricerche online relative a Covid e febbre hanno raggiunto i 298 milioni, più di 10 volte superiori rispetto al 1° dicembre.
La rapida diffusione sta causando una grave carenza di farmaci di uso quotidiano e sta portando gli ospedali di diverse città (compresa Chengdu, capitale del Sichuan e importante centro produttivo), allo stremo. Secondo diverse testimonianze c’è chi ha potuto curarsi solo bevendo acqua calda. I crematori di Pechino sono stati sommersi. Un’impresa funebre citata dal media cinese Caixin sostiene di cremare circa 600 corpi al giorno, rispetto alla media di 150 mantenuta fino a fine novembre.
Ma secondo alcuni analisti, la situazione pandemica stava già sfuggendo di mano prima dell’allentamento delle restrizioni e l’accelerazione alla riapertura sia stata impressa anche per mantenere intatta l’aura di “infallibilità” della strategia zero Covid coniata da Xi Jinping. Le proteste di fine novembre tra città e fabbriche sarebbero state in tal senso la spinta (o l’opportunità) decisiva per compiere un passo sul quale erano e sono a maggior ragione ora scettici diversi cinesi, soprattutto delle province rurali e con un sistema ospedaliero meno attrezzato delle grandi metropoli.
Il mondo osserva preoccupato, anche perché non si può escludere il rischio che una diffusione così rapida del virus possa creare nuove mutazioni. «La Cina ha una popolazione molto numerosa e un’immunità limitata», ha dichiarato alla Associated Press, Stuart Campbell Ray, esperto di malattie infettive all’americana Johns Hopkins University: «E questo sembra essere il contesto in cui potremmo assistere all’esplosione di una nuova variante». Il Giappone, riaperto da tempo ai viaggiatori, ha imposto un tampone a tutti coloro in arrivo dalla Cina e ha limitato il numero di voli che collega i due paesi. Controlli rafforzati anche in Italia: la regione Lombardia ha chiesto all’aeroporto di Malpensa di reintrodurre i test anti Covid ai passeggeri provenienti dal paese asiatico Anche nell’inverno del 2020, l’Italia fu il primo paese occidentale a bloccare i voli diretti con la Cina: misura aggirabile attraverso scali in Paesi terzi appartenenti all’Unione europea. —
La Stampa