Stefano Simonetti, Il Sole 24 Ore sanità, Da tre settimane è stato rinnovato il contratto collettivo del comparto e con la busta paga di novembre infermieri, tecnici sanitari, amministrativi e Oss troveranno gli arretrati che, ricordiamolo, si riferiscono a un contratto già scaduto da undici mesi. Gli aumenti sono di circa il 4,2% e nel mese in cui saranno incassati l’inflazione ha superato l’11%. Buio totale sul rinnovo delle due aree della dirigenza. La questione della perdita drammatica del potere di acquisto sta diventando prioritaria e questo vale sia per il comparto che per i dirigenti. Cosa si potrebbe fare per attenuare gli effetti dell’inflazione? In realtà una soluzione – per quanto minimale e contingente – potrebbe essere trovata nell’ambito delle norme vigenti, senza alcun intervento legislativo specifico. La proposta che segue – valida anche per la dirigenza sanitaria – è molto ardita e quasi provocatoria ma è compatibile con il quadro legislativo e contrattuale vigente.
Come è noto, il decreto Aiuti-quater (Dl 18 novembre 2022, n. 176, entrato in vigore il 19 novembre scorso), con l’art. 3, comma 10 ha aumentato a 3.000 euro la soglia dei fringe benefits esenti da imposte che i datori di lavoro possono erogare ai propri dipendenti, misura già adottata dal precedente Governo con il Dl 115 dell’agosto scorso nella misura di 600 euro. Tecnicamente l’operazione consiste di mettere in busta paga il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche. E detti importi non concorrono a formare il reddito, in deroga a quanto previsto dal Tuir. Esponenti del Governo hanno battezzato l’operazione come una seconda tredicesima ma Confindustria ha già manifestato molte perplessità riguardo alla sua realizzazione perché le aziende in pratica hanno già chiuso i bilanci e non ci sarebbero i tempi tecnici. L’erogazione avviene nell’ambito dei piani di welfare aziendale ed è proprio questa la chiave di volta della proposta che tento di fare per la Sanità.
Tradizionalmente il pubblico impiego non ha mai goduto di defiscalizzazioni del salario accessorio ma qualcosa ultimamente è cambiato. Secondo una elaborazione dell’Aran di alcuni anni fa, su dati della Ragioneria Generale (Conto annuale), risulta che la Sanità è il comparto dove si investono minori risorse per il welfare aziendale: 1.382.844 euro a carico delle aziende per 646.305 unità di personale, con un beneficio pro capite medio di 2 (due!!) euro annui. Si ha ragione di ritenere che attualmente la situazione sia anche peggiore. Secondo alcuni commenti, l’aiuto deciso dal Governo andrà solo ai lavoratori privati in quanto per i dipendenti della Pubblica amministrazione mancano le coperture necessarie: solo per erogare il bonus ai 3,2 milioni di statali in servizio servirebbero, si sostiene, fino a 9 miliardi. Ma questa tesi parte dal presupposto che siano le aziende sanitarie ad erogare da bilancio i fringe benefit, il che è piuttosto improbabile. Ma potrebbe esistere un’altra soluzione. Vediamo innanzitutto il contesto normativo di compatibilità: l’art. 12 del Dl 115/2022 non esprime alcuna esplicita limitazione e fa riferimento al Tuir, ai lavoratori subordinati e all’imposta sul reddito, senza alcuna distinzione tra lavoratori pubblici e privati. Ma, soprattutto, non va sottovalutato che il Governo che ha adottato la scorsa estate questa misura – apertamente eccezionale e contingente – è lo stesso che il 10 marzo 2021 aveva promesso una innovazione epocale nel Patto per il lavoro pubblico. Il paragrafo 6, infatti recita: “le parti concordano inoltre sulla necessità di implementare gli istituti di welfare contrattuale, anche con riguardo al sostegno alla genitorialità con misure che integrino e implementino le prestazioni pubbliche, le forme di previdenza complementare e i sistemi di premialità diretti al miglioramento dei servizi, estendendo anche ai comparti del pubblico impiego le agevolazioni fiscali previste per i settori privati a tali fini”.
Dal punto di vista normativo non sussistono impedimenti e anche sulle intenzioni del Legislatore non dovrebbero esserci dubbi ma, soprattutto, sarebbe veramente irrazionale pensare che una misura fiscale adottata per fronteggiare la crisi energetica possa essere attuata a favore di una sola parte dei lavoratori subordinati.
Torniamo allora alla proposta. Il Ccnl del comparto appena rinnovato all’art. 89 disciplina il welfare integrativo e i suoi contenuti sono importanti e di grande valore per i dipendenti, ma il problema maggiore è costituito dal finanziamento. In pratica la norma è la stessa dell’ex art. 94 che viene disapplicato. Come detto, la debolezza della clausola è che le risorse sono incerte e potrebbero addirittura essere del tutto assenti. Il rinvio alla contrattazione integrativa non risolve affatto i problemi perché il contenuto della lettera e) del comma 5 dell’art. 9 parla di “criteri generali per l’attivazione di piani di welfare integrativo”, cioè si parla di “come spendere i soldi” ma non “come trovarli”. L’unica soluzione di un certo spessore sarebbe, dunque, quella di alimentare il welfare con risorse del bilancio ma credo sia molto rischioso per gli evidenti, possibili profili di danno erariale. Giocoforza gli interventi devono rientrare nella capienza dei fondi contrattuali e le regole da applicare dovrebbero essere quelle del vecchio contratto perché i nuovi fondi di cui agli artt. 102 e 103 si costituiscono dal 2023 e la norma del decreto 176/2002 si applica “limitatamente al periodo d’imposta 2022”. Con il fondo del pregresso art. 81 si remunerano – fino al 31 dicembre 2022 – la premialità e le fasce retributive. Queste ultime hanno importi storici blindati e intoccabili, per cui l’unica fonte di finanziamento sarebbe la premialità legata alla performance organizzativa e individuale. Si tratterebbe, dunque, di “rinunciare” per l’anno corrente a utilizzare una quota del fondo per le due maggiori finalizzazioni (fasce retributive e premialità), liberando le risorse da poter utilizzare per il welfare e questa operazione sarebbe isorisorse perché realizzerebbe un diverso utilizzo del fondo contrattuale a costo zero. Le modalità e i criteri per realizzare il pagamento delle utenze – ovvero degli altri benefit indicati nell’art. 89 – vengono definiti in contrattazione integrativa, così come la percentuale di risorse da attribuire al welfare. Mediante questo passaggio i lavoratori avrebbero un vantaggio di circa 1.000 euro, calcolando l’aliquota Irpef del 35% in relazione alla retribuzione media di 31.000 euro. Ma si potrebbe fare ? Io sono convinto di si, anche se immagino quanti Collegi sindacali avrebbero da eccepire. Tuttavia, nell’approfondire un giudizio di fattibilità giuridica, credo sia fondamentale porre attenzione agli evidenti profili di incostituzionalità che si paleserebbero qualora si ufficializzasse che la misura prevista dal decreto Aiuti-quater non si può applicare ai dipendenti pubblici.