di Stefano Simonetti, Il Sole 24 Ore sanità. Nell’ambito dell’ordinamento contrattuale della Sanità esiste da ventidue anni un istituto normo-economico del tutto particolare chiamato “prestazioni aggiuntive”. Negli ultimi anni – complice anche lo stato di emergenza – il ricorso alle prestazioni aggiuntive ha raggiunto picchi inaccettabili e in moltissime aziende sanitarie senza di esse la continuità assistenziale sarebbe a rischio di interruzione.
Sono, tuttavia, una vera e propria anomalia concettuale, prima ancora che giuridica. Queste le ragioni di tali particolarità:
– secondo quanto rappresentato dal quadro normativo del vigente Ccnl (art. 115, comma 2, del Ccnl del 19.12.2019) dovrebbero essere utilizzate “in via eccezionale e temporanea, ad integrazione dell’attività istituzionale“, ma questa è una condizione ormai cronicamente presente da più di venti anni nelle aziende ed è divenuta in pratica assolutamente “ordinaria”;
– sono pagate da bilancio e non dai fondi contrattuali;
– sono considerate prestazioni erogate in regime della libera professione intramuraria in aperta contraddizione con i principi fondanti dell’Alpi che sono la sussistenza di un terzo pagante e la scelta del nominativo da parte dell’utente;
– infine, risalendo al contratto collettivo del 2000, risultano prive di copertura legislativa perché vennero inventate dal Cccnl e poste subito a carico del bilancio, eludendo in tal modo il fatto che fossero ricomprese nel computo degli oneri contrattuali.
Inoltre, in stretta connessione con lo stato di emergenza e il contrasto alla pandemia, la legge 126/2020, con l’art. 29, comma 2, ha consentito, limitatamente al recupero dei ricoveri ospedalieri, di “ricorrere alle prestazioni aggiuntive di cui all’articolo 115, comma 2, del contratto collettivo nazionale di lavoro dell’area della sanità relativo al triennio 2016-2018 dei dirigenti medici, sanitari, veterinari”. La norma citata è stata prorogata fino al 31 dicembre 2022 dal comma 276 della legge 234/2021, legge di Bilancio 2022.
Un aspetto specifico e molto delicato delle prestazioni aggiuntive è quello se esse concorrono o meno al raggiungimento della durata massima della settimana lavorativa disciplinata dalla normativa comunitaria.
La questione è spesso sottovalutata, in quanto il prioritario interesse aziendale è quello di garantire i servizi e quello dei medici è quello di ottenere una remunerazione che è esattamente il doppio di quella prevista per il lavoro straordinario. Per cui, tanti scrupoli o approfondimenti non sono frequenti.
Tuttavia, in termini generali, la tematica non è affatto secondaria e il costante aumento del ricorso alle prestazioni aggiuntive non è escluso che porti all’interessamento da parte degli ispettori delle Direzioni territoriali del lavoro.
Ma cosa dice la normativa comunitaria? L’art. 4 del Dlgs 66/2003 – che recepisce la normativa comunitaria su orari e riposi – sancisce che la durata massima settimanale è di 48 ore, calcolate su quattro mesi, periodo che può essere portato a sei o a dodici dalla contrattazione collettiva. Il Ccnl del 19.12.2019, in tal senso, ha previsto all’art. 24, comma 14, che “il periodo di riferimento per il calcolo della durata media di quarantotto ore settimanali dell’orario di lavoro, comprensive delle ore di lavoro straordinario, è elevato a sei mesi”. La clausola è chiara riguardo alla elevazione del periodi di rilevazione ma non rispetto a cosa rientra nelle 48 ore. La precisazione riguardo al lavoro straordinario potrebbe indurre a pensare che la previsione sia esaustiva e che, di conseguenza, le prestazioni aggiuntive siano fuori dal computo. Ma questa conclusione non convince affatto. Innanzitutto perché la norma pattizia non è una fonte normativa abilitata a declinare cosa rientra nel concetto di orario di lavoro ma soltanto ad aumentare il periodo temporale di rilevazione. Ma la motivazione più stringente per ritenere invece che essere siano ricomprese, la si può riscontrare nella norma legislativa, sopra citata, che ha richiamato le prestazioni aggiuntive per ridurre le liste di attesa, dove si legge che “restano ferme le disposizioni vigenti in materia di prestazioni aggiuntive con particolare riferimento ai volumi di prestazioni erogabili nonché all’orario massimo di lavoro e ai prescritti riposi”: quest’ultima affermazione non avrebbe alcun senso se le intenzioni del Legislatore fossero state di ritenere le prestazioni aggiuntive estranee ai vincoli comunitari.
Una ulteriore tesi sostenuta è quella che, poiché le prestazioni aggiuntive si effettuano su base volontaria, basterebbe questa circostanza per escluderle dalle 48 ore. Anche questa costruzione è priva di pregio, in quanto nessuno dubita che il lavoro straordinario rientri nelle 48 ore, ma l’art. 5, comma 3, del d.lgs. 66/2003 precisa che “in difetto di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso soltanto previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore”; e il contratto collettivo vigente non prevede affatto l’obbligo. Infine, non si può non tenere conto che la stessa definizione di “orario di lavoro” utilizzata dal decreto 66 non lascia dubbi: l’art. 1, comma 2, lo declina come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.
Orbene, se si ragiona con il buon senso, appare evidente che nel caso delle prestazioni aggiuntive le tre condizioni prescritte sussistono pienamente e la loro volontarietà non c’entra nulla, tanto che nella norma riportata non si parla affatto di “obbligo” o “consenso”.
Quando entrò in vigore la legge 161/2014 – che ripristinò gli articoli 4 e 7 originari del decreto 66 a seguito della procedura di infrazione aperta dalla Ue – ripresero in pieno le criticità che avevano portato alcuni anni prima alle deroghe e, tra le tante difficoltà operative, si pose la questione dell’incidenza o meno delle prestazioni aggiuntive sull’art. 4.
La Regione Veneto fu la prima ad affrontare sul campo la tematica e, con nota del 6 novembre 2015, l’Area Sanità e Sociale ha ritenuto utile fornire alle Aziende ed Enti del Ssr alcuni chiarimenti alle questioni sollevate. In particolare, vi si afferma: «Sul tema delle attività rese in regime di libera professione si è considerato di poter affermare – nonostante quanto affermato precedentemente in merito alle competenze regionali -, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le prestazioni richieste dalle aziende allo scopo di ridurre le liste di attesa o di acquisire prestazioni aggiuntive, ex articolo 55, comma 2 dei Ccnl delle aree dirigenziali dell’8.06.2000, debbano essere considerate ai fini del computo della durata massima dell’orario di lavoro e del riposo giornaliero, in quanto, se pur formalmente di natura libero professionale, tali prestazioni, oltre ad essere strettamente correlate alle funzioni istituzionali dell’ente e a essere poste a carico del Ssn, costituiscono, nella sostanza, una prosecuzione della normale attività dei dirigenti medici e sanitari interessati». In buona sostanza, si dice che non conta il nomen con cui sono definite tali prestazioni – l’improponibile e finta assimilazione alla libera professione – ma la sostanza della prestazione.
In conclusione, le prestazioni aggiuntive rientrano pienamente nelle 48 ore settimanali ma, giocando sulle compensazioni durante il periodo di rilevazione che, come detto, è stato portato a sei mesi, non dovrebbero portare a sforamenti orari e conseguenti violazioni della normativa vigente. Questa conclusione vale anche per l’attività svolta in convenzione per conto di altra azienda, ai sensi dell’art. 115, comma 1, lettera c), del Ccnl vigente. Queste ore aggiuntive devono essere computate nell’ambito delle ore settimanali che concorrono a raggiungere il tetto di ore massimo settimanale perché il medico non ha un rapporto diretto con l’azienda richiedente le prestazioni ma il rapporto viene veicolato dalla convenzione e la richiesta di lavoro extra proviene dal medesimo datore di lavoro, in ciò concretizzando pienamente le fattispecie dell’art. 1 del decreto 66 del 2003.