Il Decreto ministeriale voluto dal ministro Speranza prevede che dal prossimo gennaio ci sia sempre personale sanitario di prossimità a disposizione di chi sta male, giorno e notte. Mettere in pratica il provvedimento, però, sarà difficile
Che la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e la conseguente discussione mediatica siano arrivate in piena estate è probabilmente poco più che un caso, ma il tema è di quelli che hanno tenuto banco quasi quotidianamente negli ultimi due anni e mezzo: il rafforzamento della medicina territoriale e di comunità. L’oggetto è il Decreto ministeriale 77, che porta la data del 23 maggio scorso ed è entrato in vigore il 7 luglio, ma soprattutto che fissa tra meno di un semestre (al 31 gennaio 2023, per la precisione) la data ultima per adeguarsi alle nuove disposizioni di legge.
Giornalisticamente questa novità è stata spesso sintetizzata con “medici e infermieri sempre reperibili”, facendo riferimento ovviamente non al singolo operatore della sanità (che continuerà ad avere una mole di lavoro secondo quanto già previsto) ma alla struttura sanitaria territoriale, che quindi giocoforza dovrà dotarsi di un organico più numeroso per coprire una serie di turni finora non previsti.
Senza tanti giri di parole, più d’un commentatore giornalistico ha definito questa misura – fortemente voluta dal ministro della Salute uscente – il più importante lascito politico di Roberto Speranza. Il provvedimento prevede infatti non solo la generica presenza di personale medico disponibile a poca distanza e in qualunque momento nelle Case di comunità, ma anche di assistenti sociali, ostetrici, pediatri, psicologi, infermieri, tecnici della riabilitazione e in generale medici specializzati nelle diverse discipline che possano prevedere una gestione immediata e in loco del problema di salute (acuto o cronico) che si manifesta. E per i casi più gravi, il decreto prevede che la struttura sia attrezzata per permettere al paziente di raggiungere l’Ospedale di comunità più vicino, in modo da garantire a tutti gli effetti la continuità territoriale dell’assistenza.
Nero su bianco nel provvedimento ci sono anche una serie di altre misure organizzative. Oltre al già citato Ospedale di comunità, inteso come un nosocomio a scala ridotta utile ad assorbire parte del traffico di pazienti che confluirebbe nei grandi centri, si parla di assistenza domiciliare (anche grazie alla soluzioni digitali), di hospice, di gestione delle cronicità e così via. Nel tentativo di garantire la più rapida ed efficiente adozione della nuova misura, il ministero ha deciso di vincolare al decreto 77 una parte del budget sanitario. Chi non dovesse adeguarsi, infatti, perderà una parte del finanziamento integrativo attraverso il Fondo sanitario nazionale, in una quota quantificata tra il 2% e il 3%.
Nonostante in linea di principio non possa esserci granché da obiettare al provvedimento (d’altra parte, traduce in legge ciò che tutti vanno auspicando già da prima della pandemia), qualche perplessità resta sul fronte dell’applicabilità reale di quanto previsto. Ciascuna Casa di comunità, per esempio, per potere funzionare secondo le disposizioni di legge dovrebbe avere un organico stimato di 30-35 persone solo tra medici di base e pediatri, oltre a una decina di infermieri e a tutti i vari specialisti reperibili. Molti di più di quanto attualmente siano previsti in organico.
Le critiche alla nuova legge si orientano soprattutto in due direzioni. La prima riguarda la presenza parallela di un doppio binario sanitario, in cui la suddivisione dei compiti tra i medici di famiglia e le Case di comunità potrebbe risultare fumosa se non addirittura conflittuale (come noto, in moltissimi casi i medici di famiglia sono oggi in numero insufficiente e oberati di lavoro). In questo contesto, il timore è che la Casa di comunità diventi di fatto una sorta di poliambulatorio con annesso un servizio a metà strada tra una guardia medica e un mini pronto soccorso. Così si è espressa, per esempio, l’Alleanza per la riforma delle cure primarie. La seconda direzione è meno concettuale e più economica: per garantire la reperibilità continua occorre più personale, dunque più assunzioni (e stabilizzazioni dei precari), più turnover quando ci sono pensionamenti e dunque una maggiore disponibilità di fondi. Questi fondi in effetti ci sono – oltre a quelli del Pnrr, si prevedono 91 milioni di euro per il 2022, 150 per il 2023, poi 328, 591 e 1.015,3 tra il 2024 e il 2026 – ma la valutazione dei sindacati è che non siano sufficienti, soprattutto nella prima fase.
L’ultimo tema è naturalmente il fattore tempo: ritenere che nei 6 mesi scarsi che ci separano della scadenza prevista dal decreto su tutto il nostro territorio nazionale avvenga questa rivoluzione della sanità è probabilmente un po’ troppo ottimista. L’importante però, se e quando inizieranno ad arrivare cambiamenti concreti, è che la direzione sia quella giusta, anche se probabilmente appena una manciata di casi virtuosi si adeguerà davvero entro i termini previsti