Dossier Corriere Salute. Dobbiamo cambiare marcia e provare a stare un passo avanti all’emergenza sanitaria, senza essere costretti a doverla solo rincorrere. No, non stiamo parlando delle varianti di Sars-CoV-2 e della pandemia di Covid-19, ma di un altro guaio all’orizzonte che promette di rivelarsi forse perfino più temibile, almeno stando alle stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: le resistenze dei batteri agli antibiotici conosciuti corrono, molto più di quanto faccia la ricerca scientifica e lo sviluppo di nuovi farmaci. Tradotto, significa che sempre più spesso oggi e ancora di più nel prossimo futuro gli antibiotici ai germi «faranno un baffo», così curare le infezioni diventerà sempre più difficile. Tanto arduo al punto che gli esperti non esitano a prevedere una situazione catastrofica entro il 2050, con 10 milioni di vittime ogni anno nel mondo per colpa di infezioni batteriche un tempo curabilissime: oggi i morti sono oltre 700 mila l’anno, ma le prospettive sono drammatiche.
L’allarme
Durante l’ultimo European Congress on Clinical Microbiology and Infectious Diseases gli specialisti si sono chiesti quanti «allarmi finali» dovranno ancora suonare prima che ci si decida ad affrontare la «crisi degli antibiotici» e il problema delle resistenze; non sembra ci sia ancora grande attenzione al tema, come sottolinea Francesco Scaglione, responsabile della Farmacologia Clinica all’Ospedale Niguarda di Milano e membro della Società Italiana di Farmacologia: «La consapevolezza del problema delle resistenze antibiotiche c’è, ma non si fa granché per arginarle. Con la pandemia, poi, è sceso un velo su tutto. E dire che in ospedale tanti pazienti sono morti anche a causa della contemporanea infezione da batteri multiresistenti».
Sono questi super-batteri il vero incubo: non rispondono a molti dei farmaci noti e riportano le lancette dell’orologio a un secolo fa, a prima della scoperta della penicillina quando per morire bastava che si infettasse una ferita da poco. Il timore è che si sviluppino batteri resistenti a tutti gli antibiotici (casi di resistenza pressoché totale sono stati già segnalati anche in Italia), ma per avere conseguenze gravi basta che un germe ne tolleri soltanto uno: in alcune infezioni le seconde o terze linee di terapia provocano effetti avversi irreversibili nel lungo termine, in altre non ci sono ulteriori opzioni di cura e le complicanze possibili sono tante, serie e arrivano fino al decesso. La comparsa di resistenze però è un fenomeno ineluttabile, «Insito nell’uso stesso degli antibiotici, che uccidono i germi sensibili ma selezionano microrganismi che casualmente “si salvano” grazie alle loro caratteristiche, continuando a riprodursi e producendo così nuovi ceppi che non rispondono al medicinale impiegato inizialmente», spiega il farmacologo. Sviluppare una resistenza per il germe è come alzare una linea di difesa di fronte al nemico: i batteri lo fanno impedendo all’antibiotico di entrare grazie a modifiche della membrana cellulare, rendendolo inefficace grazie a minuscole “pompe” che lo rimuovono appena entra, creando enzimi che lo eliminino oppure trovando modi per ovviare agli effetti del farmaco. I metodi sono tanti ma tutte le resistenze sono scritte nei geni; il problema è che nel caso dei batteri questi non vengono solo trasferiti alla prole, come accade con il Dna umano che passa dai genitori ai figli, ma anche scambiati fra microrganismi di specie differenti.
Questo trasferimento genico fra batteri è frequente e avviene spesso nel nostro intestino o in animali domestici trattati con antibiotici, luoghi prediletti per l’evoluzione delle resistenze. Lo ha scoperto Joakim Larsson del Centre for Antibiotic Resistance Research dell’Università di Göteborg, in Svezia, confrontando migliaia di genomi batterici: i geni delle resistenze, la cui origine è ignota per il 95 per cento dei casi, arrivano spesso da batteri che provocano malattie e che li passano ad altre specie che si trovano vicino, perciò quando cresce la possibilità di incontri fra batteri, come appunto nel nostro affollato intestino o negli allevamenti intensivi, il rischio di un rimescolamento che diffonda resistenze sale.
«Non solo» aggiunge Scaglione, che è anche ordinario di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano: «gran parte dei geni che conferiscono resistenza agli antibiotici arriva da batteri che non conosciamo: il microbiota ambientale, meno noto di quello intestinale, è una riserva consistente di resistenze. Il corollario è che oltre a usare con criterio gli antibiotici per le malattie umane e animali dovremmo anche fare molta attenzione a non disperdere gli antibiotici nelle acque di scarico o nell’ambiente in generale, per esempio evitando di gettare i medicinali avanzati nel wc o nella spazzatura normale».
Alcune semplici regole aiuterebbero infatti a ridurre le resistenze e molto si può fare in prima persona tuttavia prenderci maggior cura dell’ecosistema sembra un passo necessario per poter convivere con i batteri senza che aumenti troppo il numero delle specie invincibili: uno studio recente della Chalmers University of Technology svedese ha rilevato che la velocità di acquisizione della resistenza agli antibiotici da parte di batteri dannosi per l’uomo è oggi molto più alta rispetto al passato proprio a causa del trasferimento delle resistenze da specie presenti nell’acqua, nel suolo, negli animali, negli impianti industriali.
Le barriere
«I geni per le resistenze emergono naturalmente in tutti questi ambienti e per il loro passaggio alle specie che possono infettare l’uomo ci sono assai meno barriere di quel che pensavamo», ha spiegato il coordinatore dell’indagine, Jan Zrimec. Una buona parte del problema deriva dall’utilizzo ampio e indiscriminato degli antibiotici in agricoltura e allevamento: «Per farne capire l’impatto, noi farmacologi diciamo che con duecento grammi di salmone si potrebbe curare una cistite», commenta Scaglione.
«Una provocazione ma non troppo: le regole sono migliorate negli ultimi anni, ma servono più controlli per assicurarsi che nell’industria alimentare l’impiego di antibiotici sia ridotto al minimo indispensabile. Da parte nostra, noi consumatori possiamo preferire carne e pesce di provenienza italiana, visto che le regole del nostro Paese sono molto più stringenti rispetto ad altrove».
Usati troppo e male. Vanno rispettati tempi e modi
Ridurre le resistenze agli antibiotici passa dalle scelte oculate dei medici al momento della prescrizione, ma è anche una nostra responsabilità. Perché quando abbiamo un’infezione, piccola o grande, il pensiero corre subito all’antibiotico ed è difficile convincerci del contrario: una ricerca condotta dalla Bond University nel Queensland, in Australia, ha dimostrato di recente che un’attenta condivisione della decisione terapeutica, con il medico che spiega con cura tutti i pro e i contro della terapia con antibiotici o senza, non riesce a tagliare in maniera drastica le prescrizioni.
Scelta oculata
I pazienti vogliono l’antibiotico e i medici a volte cedono perché, come spiega il farmacologo dell’Ospedale Niguarda di Milano Francesco Scaglione, «Non si fa abbastanza formazione sull’impiego di questi come di altri farmaci di uso comune, così si perde lentamente la cultura e la consapevolezza per un loro impiego adeguato. Vale in parte per i medici, ma soprattutto per i pazienti che, non sapendo davvero a che cosa servano gli antibiotici o quali possano essere i rischi di un uso scorretto, li vogliono appena hanno un raffreddore o se non passa in tre giorni, oppure prendono quelli avanzati da una terapia precedente o li prestano all’amico». Se per esempio tutti avessero ben compreso che gli antibiotici non servono a niente contro le infezioni virali, responsabili dei raffreddori, le mamme non correrebbero dal pediatra al primo starnuto chiedendo un antibiotico per i figli. Certo, in tanti casi servono eccome e non dobbiamo demonizzarne l’impiego perché come osserva Scaglione: «Non è la quantità di antibiotici a fare i danni maggiori, quanto piuttosto come vengono usati: si stima che il consumo eccessivo sia responsabile soltanto del 28 per cento delle differenze nella resistenza agli antibiotici fra i diversi Paesi, che fra l’Italia e il resto d’Europa sono talvolta schiaccianti (si veda sotto). Il resto dipende da un impiego sbagliato.
La regola d’oro? Usare gli antibiotici quando servono, dopo un’attenta diagnosi, e soprattutto alle concentrazioni più alte e per la durata di tempo giusta», raccomanda l’esperto. «Il dosaggio andrebbe adattato al singolo paziente ma in generale è bene usare il più elevato; occorre poi seguire attentamente la posologia indicata dal medico, rispettando con scrupolo orari e modalità di assunzione, e proseguendo la cura per il tempo necessario. In ospedale spesso gli antibiotici vengono presi per quindici, venti giorni anche se l’infezione si è risolta dopo una settimana, ma è un errore. Anche al di fuori delle cliniche terapie antibiotiche più lunghe di una settimana non hanno quasi mai senso, se si è scelto l’antibiotico giusto: una tonsillite si può risolvere in cinque giorni con il farmaco più adatto, ma il tempo può raddoppiare col principio attivo sbagliato».
Vietato interrompere
Anche per questo il fai da te è vietato, perché solo il medico può decidere quale prodotto è più opportuno in ciascuna situazione e indicare le modalità di cura più corrette. Vietato però anche interrompere la terapia prima di quanto stabilito dal dottore, se i sintomi sono scomparsi: la durata della cura è decisa in modo da evitare che possano restare batteri vivi in circolazione che, ricominciando a proliferare, potrebbero dare una recidiva e aumentare il rischio che si sviluppi una resistenza. «I tempi devono essere brevi ma certo l’infezione deve essere scomparsa prima di smettere l’antibiotico», puntualizza Scaglione. «Se si seguono con scrupolo le indicazioni del medico non si corrono rischi».
Trattamenti combinati. L’unione (se è giusta) fa la forza
Lo spauracchio è che si arrivi davvero a un’era post-antibiotica, in cui infezioni banali o ferite leggere diventino incurabili e sottoporsi a un intervento chirurgico, anche molto semplice, comporti pericoli rilevanti per la salute. Ci siamo incamminati sulla strada per arrivarci molto presto, purtroppo: l’Istituto Pasteur ha dimostrato di recente che la resistenza all’ampicillina, un antibiotico ad ampio spettro molto usato per infezioni intestinali, è nata nel giro di appena uno-tre anni dal suo arrivo in clinica all’inizio degli anni ‘60 per colpa dell’uso che era stato fatto negli allevamenti, già negli anni ’50, della penicillina, il primo antibiotico a essere stato scoperto nel 1928 da Alexander Fleming e parente stretto dell’ampicillina. Già prima che se ne diffondesse l’impiego nell’uomo, in altri termini, i batteri trattati con un farmaco simile avevano sviluppato armi per il contrattacco che poi hanno impiegato anche con il nuovo antibiotico. Da allora in avanti la guerra ai batteri è stata una continua rincorsa a trovare nuovi farmaci che però negli ultimi anni sembra aver avuto una battuta d’arresto: gli antibiotici in fase avanzata di sviluppo si contano sulle dita, a fronte per esempio di decine e decine di preparati studiati per l’oncologia. Francesco Scaglione, docente di Farmacologia dell’Università di Milano e membro della Società Italiana di Farmacologia, è comunque ottimista: «Quando c’è la pressione che deriva da un’esigenza, la ricerca sforna soluzioni: lo abbiamo visto con la pandemia, confido che accada lo stesso per i batteri resistenti alle terapie. Negli ultimi vent’anni non abbiamo avuto grandi passi avanti perché studiare gli antibiotici non pareva redditizio, oggi qualcosa già si muove con le novità nel campo degli inibitori delle beta-lattamasi, delle cefalosporine, dei carbapenemi grazie a farmaci che sono efficaci come quelli che usavamo due decenni addietro. In futuro non credo moriremo come mosche per un’infezione; certo dobbiamo investire in ricerca, tenere la guardia alta e utilizzare bene ciò che abbiamo, altrimenti nel giro di dieci anni saremo punto e accapo anche con questi nuovi farmaci».
Secondo le stime più recenti potremmo già oggi «risparmiare» un terzo dei decessi dovuti alle resistenze batteriche soltanto usando al meglio le armi a disposizione: la ricerca è attiva anche su questo fronte e, per esempio, è stata dimostrata l’efficacia di una nuova combinazione di farmaci che può aggirare la resistenza ai carbapenemi di batteri che provocano polmoniti, infezioni del tratto urinario e sepsi, un’infezione generalizzata con elevata mortalità. Spesso infatti la soluzione è «accoppiare» bene gli antibiotici: lo ha provato uno studio dell’Università di San Diego, in California, per il quale è stato messo a punto un algoritmo con cui prescrivere le coppie di farmaci che, in ogni situazione, danno la minor probabilità di portare allo sviluppo di resistenze collaterali. «Quando si usa più di un antibiotico può capitare che il primo favorisca un aumento della sensibilità dei batteri al secondo o, al contrario, faciliti la comparsa di resistenza: oggi non è ancora possibile eliminare questo rischio, ma si può minimizzare con un’attenta scelta dei farmaci», concludono gli autori.
Il corsivo. Un tesoro che possiamo salvare soltanto insieme
Di recente Aifa (Agenzia Italiana del farmaco) ha presentato il Rapporto Antibiotici 2020. Un documento atteso, perché, come si spiega nelle pagine che seguono, il problema della sempre più diffusa resistenza dei batteri nei confronti degli antibiotici è ormai serissimo. Un po’ come per i problemi ambientali anche per questo ci stiamo avvicinando a grandi passi a un punto di non ritorno e alla fine di questa «camminata» rischiamo di trovarci in una situazione pre-antibiotica, quando bastava sbucciarsi un ginocchio giocando a pallone per rischiare di morire a causa di un’infezione. I tempi che stiamo vivendo ci insegnano che abbiamo goduto di pace, o almeno di assenza di guerra aperta, e almeno in Europa, a partire della fine della Seconda Guerra Mondiale. Un lasso di tempo che coincide, guarda caso, con l’avvento della terapia antibiotica (la penicillina fu usata all’inizio per le truppe alleate in quel conflitto e poi il suo uso si diffuse). Una coincidenza che può servire a rammentarci che entrambi questi privilegi di cui abbiamo beneficiato sono preziosi e vanno salvaguardati con ogni sforzo possibile. E nel caso degli antibiotici siamo chiamati tutti a collaborare in prima persona a questo scopo. È stato detto e scritto molte volte, ma non ci si può stancare di richiamare alla necessità di evitare di fare pressione sul medico perché prescriva antibiotici quando non sono necessari, a non utilizzarli senza consultarlo, a non prendere quelli che sono eventualmente avanzati nell’armadietto dei medicinali, ad assumerli alle ore giuste e per i giorni indicati. Possiamo incidere molto seguendo queste norme. Certo, poi ci sono altri problemi su cui a intervenire devono essere altri attori, con i provvedimenti da prendere per esempio negli ospedali e in ambito zootecnico.
Tutti sono chiamati a fare la propria parte, anche perché nel nostro Paese l’allarme è particolarmente alto. Se il rapporto Aifa dice che nel 2020 il consumo complessivo, pubblico e privato, di antibiotici in Italia si è ridotto del 18,2% rispetto al 2019 (una buona notizia) si continua però a osservare un’ampia variabilità regionale con minore consumo nelle regioni del Nord rispetto a quelle del Centro e del Sud. Inoltre, dall’analisi della distribuzione del consumo a carico del Servizio Sanitario Nazionale emerge che oltre il 50% delle prescrizioni non ha riguardato antibiotici appartenenti alla categoria Access (molecole a basso rischio di induzione di resistenza agli antibiotici), mentre dovrebbe essere decisamente maggiore.
Quanto alla Medicina Generale è emerso un uso inappropriato che supera il 25% per quasi tutte le condizioni cliniche studiate (influenza, raffreddore comune, laringotracheite, faringite e tonsillite, cistite non complicata).
E, ancora e infine, nel 2020 il consumo territoriale in Italia si è mantenuto superiore alla media europea, nonostante la marcata contrazione rispetto all’anno precedente, che si è osservata anche negli altri Paesi a eccezione della Bulgaria.
È necessario quindi che tutti ci impegniamo di più. Ma ne vale sicuramente la pena.