Davide Michielin, Repubblica. In mammiferi e uccelli risiedono oltre 1,7 milioni di virus ignoti, la metà dei quali potrebbe avere la capacità di fare il salto di specie. È il cosiddetto “spillover”, un processo naturale in cui un patogeno presente negli animali evolve e diventa in grado di infettare, riprodursi e diffondersi nell’uomo. A lanciare l’allarme l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental science-policy platform on biodiversity and ecosystem services delle Nazioni Unite.
«In natura, la trasmissione di microrganismi patogeni tra specie diverse non è l’eccezione bensì la regola. Basti pensare che il 70% delle malattie infettive emergenti che hanno colpito la nostra specie negli ultimi vent’anni ha origine animale», spiega Umberto Agrimi, direttore del Dipartimento di Sicurezza alimentare, nutrizione e sanità pubblica veterinaria dell’Istituto superiore di sanità.
Gli effetti dei patogeni nei diversi animali sono imprevedibili: se la loro presenza in un organismo può essere letale, in altri l’infezione può rivelarsi del tutto innocua. Sono i cosiddetti “ospiti serbatoio”, cioè organismi che non risentono per nulla, o quasi, della presenza dell’agente patogeno. Al loro interno esso può sopravvivere e moltiplicarsi, in attesa di infettare altre specie. I principali indiziati sono animali vicini a noi dal punto di vista evolutivo, dotati di un sistema immunitario che tollera la permanenza dei microrganismi patogeni senza sintomi e che vivono in grandi gruppi: mammiferi come suini e pipistrelli ma anche uccelli acquatici. «Non esiste una vera e propria regola, tuttavia gli animali che compiono grandi spostamenti e frequentano sia ambienti naturali sia contesti antropizzati sono dei serbatoi efficaci ed efficienti per un agente pandemico », aggiunge Agrimi.
La trasmissione delle zoonosi, malattie che dagli animali arrivano all’uomo, può avvenire attraverso molteplici vie. In linea generale, si può realizzare per contatto diretto con l’animale infetto oppure per via indiretta, per esempio l’ingestione di alimenti contaminati ma anche tramite l’aria o l’acqua, e infine attraverso dei vettori, molto spesso insetti o aracnidi. Arrivato nel nuovo ospite, il successo di virus o batteri dipende sia dalle caratteristiche dell’ospite che dalla propria capacità di mutare. L’elevato tasso di mutazione dei virus li rende dei candidati migliori per il salto di specie rispetto a batteri o altri microrganismi. Ciò nonostante, il salto di specie non è una loro esclusiva: la peste è causata da un batterio, Yersinia pestis, trasmesso dai ratti all’uomo per mezzo delle pulci. Compiuto il salto di specie, al microrganismo serve qualcos’altro per aspirare a diventare un agente pandemico. Innanzitutto, deve possedere un’elevata contagiosità. I candidati più papabili sono virus e batteri che si diffondono tramite l’aria, ancora meglio se gli ospiti risultati asintomatici sono contagiosi.
In secondo luogo, per prolungare la propria trasmissione, sono decisive una scarsa letalità e una buona resistenza ambientale. La capacità di mutare, imprescindibile per lo “spillover”, è altrettanto importante per sfuggire al sistema immunitario dell’ospite. La nostra specie è purtroppo l’ospite ideale per un agente pandemico: vive in vaste comunità e si sposta da un capo all’altro del pianeta in tempi rapidi.
Nel caso delle pandemie il fattore tempo è infatti cruciale, come dimostra la lettera appena pubblicata su Nature dai super esperti arruolati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per ricostruire nascita e diffusione del Covid. La finestra temporale utile per scoprire la verità si sta chiudendo e un ulteriore ritardo renderà biologicamente impossibile alcuni degli studi necessari. L’indagine condotta a Wuhan lo scorso gennaio, soggetta a limitazioni di tempo e di mandato, sarebbe dovuta essere il primo passo di un processo arenatosi fin da subito a causa dell’inerzia dell’Oms e della scarsa cooperazione cinese. Il compito di dipanare la matassa sarebbe toccato a un’ipotetica fase 2 dello studio. Che però non ha mai visto la luce.