Il rilevamento di SARS-CoV-2, il virus che causa il COVID-19, è funzione della frequenza e regolarità dei test, sia che si utilizzino test antigenici rapidi che test molecolari PCR. Il test PCR è considerato il golden standard per la diagnosi dell’infezione da COVID-19, ma i problemi di costo e infrastruttura, nonché i tempi di attesa per i risultati della PCR, anche se oggi contenuti nelle 12 ore post-prelievo, ne hanno limitato l’uso più ampiamente come strumento di screening per le persone asintomatiche laddove sono necessari risultati rapidi nell’arco di 15-30 minuti per interrompere la catena di trasmissione.
Nell’ultimo numero del Journal of infectious Diseases del 30 giugno scorso, è stato pubblicato articolo molto atteso che confronta il test dell’antigene rapido Quidel SARS Sofia antigen FIA, con il saggio molecolare RT-qPCR covidShield, su 43 persone infette dal virus che sono state seguite lungo il decorso della malattia, all’interno di un campus universitario nello Utah. I partecipanti hanno fornito un campione di saliva e due tipi di tamponi nasali per 14 giorni consecutivi. Un corriere ha ritirato i campioni giornalmente.
Per ottenere una misura approssimativa del periodo durante il quale i soggetti potrebbero diffondere l’infezione ad altri, il team di ricerca ha inviato uno dei campioni nasali a un laboratorio della Johns Hopkins University per osservare la crescita del virus vivo in coltura a prova della presenza di infettività.
Il principale risultato è che entrambi i metodi di test erano ugualmente efficaci nel rilevare l’infezione da SARS-CoV-2 quando i test venivano somministrati a cadenza regolare ogni tre giorni. Sebbene i singoli test PCR siano più sensibili dei test antigenici, in particolare all’inizio dell’infezione, i risultati hanno mostrato che entrambi gli approcci di test possono fornire una sensibilità del 98% se fatti parte integrante di un programma di screening, da proporre anche a livello domiciliare, laddove il test rapido antigenico abbia appunto le frequenze di 2-3 volte a settimana.
La presenza della variante Delta sul territorio nazionale in modo autoctono, e la riapertura settembrina delle scuole con la popolazione in età scolare probabilmente non coperta da doppia dose vaccinale, pone il problema di una strategia di test non a rimorchio di “casi” Covid-19. Il test dell’antigene in modo seriale può aiutare le persone a gestire questo rischio e ad agire rapidamente per prevenire la diffusione del virus, soprattutto se legato ad un contenimento dei costi: In Belgio, ad esempio, il test è disponibile al libero commercio nei supermercati ad un costo che si aggira su 2-3 euro per la autodiagnosi, contro i 18 – 20 euro richiesti in Italia tramite i vari hubs diagnostici, per test su base volontaria effettuati da personale paramedico.
La frequenza del test rapido è stata determinata sulla base della minore sensibilità di tale test nel rilevare i periodi iniziali di infettività, a differenza del test molecolare, quando gli individui sono asintomatici o pre-sintomatici. Peraltro, nei soggetti positivi, l’infettività è stata rilevata fino al 14 gg dalla prima diagnosi di positività. La maggiore frequenza unita alla rapidità di risposta rendono il test antigenico quindi competitivo verso il saggio molecolare. Questo a dimostrare che i saggi diagnostici vanno inseriti all’interno di una strategia per risultare efficaci, al di là delle validazioni di laboratorio. E tale strategia deve essere più qualificante soprattutto se i test vengono somministrati a persone asintomatiche, senza alcun legame diretto o indiretto con casi Covid-19. Questo sito aveva già proposto un approfondimento sul corretto utilizzo dei test rapidi, a cui si rimanda.
Da non sottovalutare, inoltre che tale strategia di test antigenici ravvicinati permetterebbe anche la possibilità di utilizzare la saliva, una matrice meno invasiva e di più facile prelievo soprattutto nei bambini, anche alla luce del consenso informato dei genitori.
Probabilmente, proprio con qualche difetto di strategia sono da spiegarsi gli inaspettati picchi di contagio che si sono osservati in qualche provincia/regione in Italia nella fase 2 epidemica che è coincisa con la riapertura delle scuole nel settembre 2020. Ora la domanda che si pone è: saremo pronti per la terza ondata?
(riproduzione ammessa solo citando la fonte – testo raccolto a cura della redazione)
1 luglio 2021