La Stampa, Mario Tozzi. La plastica è stata forse la scoperta tecnologica più rilevante dall’età dei metalli. Ha permesso di sostituire i metalli stessi, la tinozza di zinco, per esempio, pesante e che si lerciava subito, con una scintillante catinella azzurra, leggerissima e facile da pulire. Del resto, basta guardarsi attorno: cosa ne sarebbe del nostro mondo senza plastica? In pratica torneremo all’età della pietra. Dunque basta utilizzarla in maniera appropriata e, se il suo accumulo diventa un problema, raccoglierla in modo differenziato perché venga riciclata. Il problema vero è che ciò è praticamente impossibile. Come dimostra quanto sta accadendo a largo di Sri Lanka.
Esistono al mondo circa 50.000 tipi diversi di plastica e, ogni settimana, nei soli Stati Uniti, si brevettano 15 nuovi polimeri. Tutte sono indistruttibili. Un pericolo, se si vogliono fare montagne di soldi. Un pericolo immediatamente neutralizzato: quelle plastiche, in teoria fatte per durare per sempre, vengono utilizzate, invece, per costituire oggetti che siamo indotti/costretti a gettare dopo l’uso.
Nel 1955 la rivista «Life» titolava «Vita usa e getta»: per la prima volta un oggetto poteva essere acquistato a un prezzo più basso di quello che sarebbe costato ripararlo. E, a partire da quegli anni, la spirale dell’usa e getta ha consumato le risorse del pianeta e colonizzato le coscienze degli umani, incapaci ormai anche solo di pensare che un altro mondo sia possibile, pure se quello era il mondo dei nostri genitori ed era possibilissimo.
Per arrivare alle microplastiche che sono, per la grandissima parte, frammenti minutissimi e sempre più piccoli, tanto che il plancton oceanico è diventato ormai tutt’uno con i pezzetti di plastica: una chimera genetica gelatinosa e raggrumata (il rapporto è sei parti di plastica per uno di zooplancton). Nel mezzo degli oceani si trova in realtà un enorme monumento alla nostra inefficacia nella raccolta differenziata delle materie plastiche. Ma forse qualcosa di peggio. Pezzettini minuti di plastica che imitano perfettamente il plancton, dando vita al primo organismo naturale mutato per via artificiale: in appena mezzo secolo di vita, la plastica è diventata essa stessa plancton.
La plastica è un materiale a contenuto tecnologico incommensurabile rispetto ad ognuno dei materiali naturali, e anche artificiali, fino a quel momento creati. Nello stesso tempo è straordinariamente resistente, non si scioglie e non si corrode. Almeno all’inizio, perché poi le plastiche perdono rapidamente integrità fisica in presenza della luce del sole e delle sostanze ossidanti, così si frantumano in pezzettini sempre più piccoli, producendo molecole di polimeri che rimangono, poi, sostanzialmente intatte per secoli. E interagiscono con tutti gli organismi marini, anche se in quale modo e con quali effetti lo stiamo cominciando a comprendere solo in questi anni.
Del resto come fa la plastica a essere inerte, visto che è fatta di petrolio? Se il petrolio è tossico, come fa la plastica a non esserlo? Perché ci raccomandano di non inserire la plastica nel forno a microonde? E perché solo certa plastica è per alimenti? E tutto il resto? Non solo le plastiche si deteriorano, e rilasciano inquinanti, ma anche li assorbono: in pratica i rifiuti di plastica in mare inquinano e ramazzano schifezze per poi trasferirle alla catena alimentare grazie a un ottimo mimetismo. Sarebbe utile scegliere solo le plastiche indispensabili, ma la turbotecnologia avanza tutta insieme o non avanza affatto. E a rimetterci saremo prima di tutti noi. —