ra il 2001 quando l’Italia conobbe la sindrome di Creutzfeldt-Jakob (encefalopatia spongiforme bovina nota anche con l’acronimo di Bse), meglio conosciuta come malattia della mucca pazza. A distanza di vent’anni dall’epidemia bovina che colpì numerose aree europee, l’Ue si ritrova a fare i conti con altre zoonosi altrettanto pericolose per gli animali, la filiera agroalimentare e, potenzialmente, per l’uomo. Una su tutte è l’aviaria. Questa influenza, i cui ceppi H5N1 e H7N1 tra il 1997 e il 2005 hanno colpito in tutti i continenti coinvolgendo milioni di volatili, è tornata a far parlare di sé in quanto i centri di controllo zoonotico del continente hanno rilevato tassi crescita preoccupanti nel centro e nord Europa. Se il 2020 è stato contraddistinto dalla ormai zoonosi per eccellenza Covid-19, già a partire dalla scorsa primavera si sono viste le avvisaglie di un aumento dei contagi tra la popolazione aviaria.
L’aviaria si riaffaccia
L’Efsa (Autorità per la sicurezza alimentare dell’Ue) a settembre 2020 aveva pubblicato i risultati di uno studio condotto tra maggio e agosto avvisando le autorità comunitarie di un possibile ritorno della patologia a causa degli spostamenti degli uccelli migratori. Con il supporto dell’Ecdc (European centre for disease prevention and control), infatti, erano stati scovati numerosi focolai in Russia e Kazakistan e l’irrigidimento delle temperature, come di consueto, ha spinto stormi di uccelli migratori verso luoghi più caldi. Tra questi la stessa Europa che è lungo la rotta. Il rischio epidemiologico all’epoca era stato ritenuto dalla stessa Efsa molto basso, tuttavia ulteriori rilevazioni hanno confermato i timori degli esperti. Neanche un mese dopo viene lanciato un nuovo monito, stavolta con toni più preoccupanti. Seppur limitati, in quel periodo vengono identificati 300 casi in Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito.
La maggior parte di questi riguardava animali selvatici che possono essere pericolosi per i pollai. Il rischio di contagio tra animali si è alzato a un livello relativamente alto, mentre rimase basso quello del salto di specie verso l’uomo. Storia diversa alla successiva pubblicazione di un nuovo report di Ecdc ed Efsa l’11 dicembre. Le migrazioni lungo la direttiva euroasiatica hanno fatto schizzare i casi di uccelli positivi a vari ceppi influenzali arrivando a 561 casi. Vittime del contagio erano soprattutto polli, uccelli in cattività e animali in libertà localizzati prevalentemente nel nord Europa. In testa la Germania con 370 casi, seguita da Danimarca con 65 e Paesi Bassi con 57. Meglio l’Italia con soli sei casi. Da un punto di vista delle tipologie di virus, il ceppo più diffuso è l’H5N8 che solo in Germania è stato responsabile di 336 casi. Da noi in Italia di soli tre. Da monitorare anche i ceppi H5N5 e H5Nx. Nel pollame è proprio l’H5N8 il più pericoloso con 40 casi (su 43).
I rischi per le aziende
La compromessa salute animale di polli, anatre, tacchini o altre specie selvatiche, rischia di mettere a repentaglio la sopravvivenza di intere filiere dell’agroalimentare già danneggiate, a vario titolo, dall’attuale pandemia da coronavirus. Un esempio della gravità della situazione (tanto da essere stata definita fuori controllo) viene dal sud-ovest della Francia. A inizio gennaio 2021 i produttori del foie gras hanno chiesto alle autorità di intervenire tempestivamente per macellare preventivamente le anatre lamentando una sensazione di impotenza di fronte a un aumento considerevole dei contagi. “Chiediamo un azzeramento temporaneo dei capi nelle fattorie, non controlliamo il virus. Non c’è soluzione”, ha detto all’Afp Hervé Dupouy, presidente della sezione palmipedi Fnsea delle Landes. “In due mesi possiamo ricominciare a produrre”, ha continuato Dupouy, fiducioso che l’annichilimento dell’attuale popolazione di anatre in tutto il dipartimento possa permettere la ripresa delle attività.
Per abbassare il tasso di contagiosità sono stati uccisi in pochissimi giorni tutti i palmipedi in un’area di tre chilometri intorno ai focolai. Stessa sorte dovrebbe attendere polli e tacchini. Dando qualche numero, in tutte le regioni di Landes, Gers e Pyrénées-Atlantiques vengono allevati cinque milioni di anatre e al 5 gennaio 200 mila animali erano stati già macellati a cui se ne sono aggiunti altri 400 mila la settimana successiva. In Inghilterra le autorità veterinarie hanno reso note le linee guida di comportamento per il mantenimento di animali da allevamento e domestici non lesinando sulle uccisioni preventive per isolare i focolai. In Corea del Sud, il ministero dell’Agricoltura sta accelerando nella campagna di soppressione del pollame attorno agli allevamenti risultati recentemente infetti arrivando a uccidere 5,6 milioni di polli. Nel mirino anche quaglie e anatre. Anche in Giappone l’abbattimento è proseguito speditamente con l’eliminazione di 36mila polli nella prefettura di Miyazaki, sull’isola di Ky?sh?. L’operazione ha richiesto anche l’ausilio delle forze di autodifesa.
A metà del mese scorso, tra l’altro, l’aviaria ha creato non pochi grattacapi anche all’indotto dei mercati indiani. A Nuova Dehli, la capitale, è stata ordinata l’immediata chiusura del mercato di Ghazipur, il suo più grande mercato all’ingrosso di pollame, dopo che alcune centinaia di uccelli, in gran parte corvi, sono stati trovati morti in varie zone della città. In tutta la capitale, oltre allo zoo, sono stati chiusi ai visitatori tutti i parchi con laghi e le riserve naturali. In Uttar Pradesh, stato che confina con Delhi, è stato chiuso lo zoo di Kanpur. In Maharashtra, lo stato di cui Mumbai è capitale, negli ultimi due giorni centinaia di polli sono stati trovati morti: Deepak Madhukar Muglikar, il funzionario statale responsabile del distretto di Parbhani, a 500 chilometri da Mumbai ha detto alla rete NDTV di avere ordinato la chiusura degli otto allevamenti della zona, e l’eliminazione di ottomila capi. L’Haryana e il Madhya Pradesh hanno ordinato agli allevatori di eliminare le galline, mentre i negozi che vendono pollame sono stati chiusi per una settimana. Il Kerala, lo stato del sud in cui a metà gennaio si sono manifestati i primi casi di aviaria, informa di aver completato l’abbattimento di oltre 50 mila anatre di allevamento.
Il piano pandemico italiano
Sulla spinta di Covid-19, l’Italia ha quindi aggiornato il suo piano pandemico nazionale fermo al 2006. Nella bozza del documento rilasciato dal Governo si legge che “la guida nasce sulla base di quanto occorso sulla scia delle minacce globali poste da malattie (ri)emergenti come l’influenza aviaria A (H5N1) e A (H7N9), l’epidemia di Sars del 2003 e l’epidemia di Mers (sindrome respiratoria Mediorientale) iniziata nel 2012”. E continua: “Alla luce della recente esperienza pandemica con virus diversi dall’influenza, si ritiene peraltro prudente non escludere dalle ipotesi programmatorie la possibilità, per quanto improbabile, che possano emergere virus influenzali caratterizzati da una elevata trasmissibilità e alta patogenicità (ad esempio determinata da future mutazioni di H5N1)”.
Insomma l’aviaria, per quanto difficilmente foriera di pandemie come quella attuale, è ritenuta una minaccia possibile dato il suo elevato tasso di diffusione tra gli animali e, perché no, anche tra gli uomini. Tra l’altro, un altro capitolo della bozza del documento tratteggia come in futuro dovranno essere rivisti, per esempio, gli spostamenti aerei e di come questi abbiano in qualche modo facilitato lo scambio intercontinentale di agenti patogeni. “In ragione del numero sempre crescente di persone che viaggiano da una parte all’altra del mondo, soprattutto in aereo, il rischio potenziale di introduzione e diffusione di malattie infettive da parte di viaggiatori è in aumento. In particolare, il settore aviario impone una riflessione specifica per il volume di passeggeri interessati, la capacità di connettere in poche ore Paesi molto distanti tra loro, e lo specifico ambiente chiuso degli aeromobili che facilità la trasmissione dei virus influenzali attraverso il contatto diretto da persona a persona o da superfici contaminate. Infatti, all’inizio dell’influenza pandemica aviaria A(H1N1) del 2009, così come con SARS-CoV-2, gli spostamenti aerei sono stati sicuramente uno dei principali modi con cui il nuovo virus si è introdotto in Paesi non ancora colpiti, e sicuramente gli aerei potranno essere un vettore importante anche per le prossime pandemie”, si legge.
Spillover
Per quanto i casi di diffusione nella popolazione umana siano stati sporadici, il rischio dello spillover è dietro l’angolo. La cronaca di questi mesi ne è una testimonianza. In Cina, infatti, nella provincia centrale dello Hunan è stato confermato il caso di un’infezione umana del virus di ceppo H5N6. Sembra che il paziente abbia contratto l’infezione a metà dicembre nel mercato del pollame della contea di Ningyuan della città di Yongzhou. L’uomo, all’uscita di questo giornale, è ancora ricoverato in terapia intensiva con l’ausilio del respiratore.
Coalizione internazionale
Il problema è transnazionale e proprio per questo motivo l’Organizzazione mondiale della sanità, la Fao e l’Organizzazione mondiale della sanità animale hanno prodotto congiuntamente a partire dal 2019 una serie di raccomandazioni o linee guida per la gestione di possibili pandemie di carattere zoonotico. L’ultimo in ordine di tempo pubblicato lo scorso anno (Joint risk assessment operational tool) propone un approccio trilaterale che tira in ballo la salute umana, animale e la qualità del cibo al fine di combattere le manifestazioni zoonotiche a livello mondiale.
Il documento di 98 pagine indica almeno quattro elementi fondamentali per affrontare situazioni potenzialmente rischiose. Innanzi tutto la volontà politica (non scontata). Viste le manifestazioni di stupore per una pandemia, quella da Sars-Cov2, che ha lasciato il mondo a bocca aperta quando gli scienziati da anni sottolineavano rischi pandemici gravi, la volontà politica di mettere in campo soluzioni serie è un punto imprescindibile.
Altro punto riguarda la capacità di far convergere verso un obiettivo comune diversi settori della salute. A volte le malattie zoonotiche colpiscono gli umani, ma non gli animali oppure interessano solo le popolazioni selvatiche e non quelle domestiche. Sta di fatto che in qualunque contesto epidemiologico, ammoniscono le tre organizzazioni, serve concertazione.
Il terzo punto riguarda l’accesso alle informazioni e la fattibilità di metterle in condivisione una volta ottenute. Molti Paesi non hanno una capacità investigativa tale da poter accumulare informazioni o sono deficitari di infrastrutture dedicate. Covid-19 è un esempio perfetto di come la condivisione di dati e analisi possa portare a risultati convincenti in poco tempo (si pensi ai vaccini, al netto dei risultati sull’efficacia di massa che ancora non si hanno).
Ultimo punto riguarda la capacità di saper gestire il rischio. E qui il nodo si fa “gordiano” perché come rivela il documento “in tanti Paesi c’è un’insufficiente capacità di gestire il rischio e di esperienza in ambito epidemiologico”.
Assenza di barriere naturali
Un tema ricorrente e su cui tutti dovrebbero interrogarsi, sia dal punto di vista scientifico che di monitoraggio epidemiologico, è la capacità di diffusione dei virus a causa degli spostamenti e migrazioni di volatili (per citare alcune specie). Come ha detto la direttrice dell’Oie Monique Eloit al forum “Il nesso tra salute, nutrizione e agricoltura nella regione mediterranea” di novembre scorso, oggi non ci sono più barriere naturali a impedire grossi flussi migratori. “Il Sahara non è più una barriera insuperabile per i patogeni e il concetto di malattia esotica è datato, sia per il Mediterraneo che per il resto del mondo. Il fatto che malattie tipiche dell’Africa subsahariana possano superare le frontiere naturali – ha detto Eloit – rende la cooperazione su questi temi ancora più importante, come nell’Animal Health Mediterranean Network, che vede l’Italia tra i Paesi più impegnati”.
Il commento di Eloit è sostanzialmente un pretesto per riprendere in mano un tema che già Jared Diamond aveva affrontato nel suo libro “Armi, acciaio e malattie” nel 1997. Per farla breve, Diamond sosteneva che l’Eurasia, più di ogni altro blocco terrestre, ha permesso, da est a ovest, una maggiore diffusione di uomini e animali a causa di barriere naturali minime. A pensarci bene non esistono grandi catene montuose contigue che impediscono gli scambi tra Europa e Asia e, inoltre, le latitudini simili consentono una maggiore facilità di acclimatamento da parte di specie non autoctone. Le stesse patologie condivise tra asiatici ed europei hanno permesso, nel corso dei millenni, l’insorgere di forme di immunità, cosa che non è sempre avvenuta altrove.
Specie aliene
Oggi questo concetto è esploso in tutta la sua complessità, perché le barriere geografiche sono ormai cadute e i virus non viaggiano più solo tramite gruppi migratori. Il mercato di animali esotici e la continua permeabilità delle frontiere del mondo globalizzato ha portato a una continua e diffusa mescolanza di piante e animali in territori nuovi. Come ammesso su AnmviOggi da Nicola Ferrari, del dipartimento di Medicina veterinaria dell’Università di Milano, il rischio infettivo da parte delle specie allogene è altamente sottovalutato. Ferrari, con la sua squadra di ricerca, ha pubblicato un lavoro sulla rivista “Plos Pathogens” per valutare le ricadute sanitarie della diffusione ormai globale di specie in ambienti a loro sconosciuti. “Comprendere le condizioni che regolano e favoriscono la trasmissione di queste infezioni tra animali e uomo, risulta di fondamentale importanza per prevenirne i potenziali impatti sanitari ed economici”, hanno evidenziato i ricercatori, i quali ritengono che la presenza di questi alieni possano non solo introdurre nuovi patogeni, ma modificare la circolazione e la diffusione di quelli già esistenti.