Il Sole 24 Ore, Matteo Prioschi. Non solo in Italia l’interesse, se non la necessità, dei datori di lavoro a favorire la vaccinazione dei dipendenti trova forti limitazioni nei diritti di scelta e di riservatezza di questi ultimi. L’avvio delle campagne vaccinali nel nostro e in altri Paesi a opera dei Governi, con la prospettiva che con l’aumento della capacità produttiva, i vaccini possano essere disponibili anche nel libero mercato, nelle ultime settimane ha alimentato un vivace dibattito sul contemperamento del dovere delle aziende di tutelare la salute dei dipendenti e l’autonomia decisionale di questi ultimi.
Un primo dato di fatto, che emerge da una ricerca condotta da Ius Laboris, alleanza internazionale di specialisti in diritto del lavoro di cui fa parte in Italia lo studio Toffoletto De Luca Tamajo, è che attualmente nei 36 Paesi di cinque continenti monitorati non c’è un obbligo di vaccinazione generalizzato, ma in alcuni si sta ipotizzando di introdurlo per alcune categorie di lavoratori. Obblighi settoriali esistono già in Russia per gli operatori sanitari e dell’educazione ad esempio, a cui si possono aggiungere disposizioni delle autorità regionali, ma si tratta di un caso specifico più che di uno standard diffuso. E, in mancanza di un obbligo di legge, diventa difficile per il datore di lavoro imporre la vaccinazione. Ma non solo.
La ricerca, infatti, fornisce indicazioni anche su altri due aspetti: la somministrazione di test anti Covid e l’incentivazione alla vaccinazione da parte dell’azienda nei confronti dei dipendenti. Sul primo fronte, non mancano le limitazioni. L’esame diagnostico tendenzialmente va svolto su base volontaria, anche se le normative dei vari Paesi contemplano la possibilità che sia necessario per lavorare in determinati settori dove c’è maggiore rischio di trasmissione. È il caso di Polonia e Repubblica Ceca, mentre in Germania può essere richiesto obbligatoriamente per tutelare la salute dei lavoratori e chi non accetta può essere messo in aspettativa senza stipendio. Nel Regno Unito, invece, si può incoraggiare la somministrazione del test ma in sostanza il dipendente non può essere obbligato a comunicarne l’esito.
In via generale non ci sono invece problemi a incentivare i lavoratori a vaccinarsi, anche se tale decisione rischia di scontrarsi con il principio di uguale trattamento e di non discriminazione dei dipendenti. Un problema a cui la ricerca non fornisce una soluzione concreta, in quanto è focalizzata a descrivere la situazione esistente, ma che si riscontra nella gran parte dei Paesi considerati.
Infine, c’è un aspetto che emerge, quello dell’eventuale rifiuto della vaccinazione per motivi religiosi o legati a scelte di stili/regimi di vita e i conseguenti limiti di intervento dei datori di lavoro, nonché del legislatore nazionale, per non discriminare tali lavoratori sulla base della religione o altre convinzioni.
LA NORMATIVA IN ITALIA. La tutela passa dal ruolo del medico competente
Tuttavia, nel frattempo, man mano che il vaccino viene reso effettivamente disponibile, il problema esiste e le aziende non possono ignorarlo. Incombe sul datore di lavoro un obbligo generale di tutelare la salute e sicurezza dei dipendenti al meglio delle possibilità esistenti (articolo 2087 del Codice civile), e un obbligo specifico di adottare misure protettive in caso di rischio di esposizione ad agenti biologici (articolo 266 e seguenti del Dlgs 81/2008), tra i quali è stato espressamente ricompreso il Covid-19. Per non dire della responsabilità datoriale nei confronti dei terzi ai quali si rivolge l’attività (pazienti, utenti, clienti). E non c’è dubbio sul fatto che oggi il vaccino sia il mezzo più efficace per contrastare la circolazione del virus all’interno di una comunità.
Le opinioni sinora espresse dai giuslavoristi oscillano tra un atteggiamento più radicale, che arriva a ipotizzare una responsabilità disciplinare per chi contravvenga a un eventuale ordine del datore di lavoro di vaccinarsi, e una posizione (che ad oggi sembra maggioritaria) che ipotizza, per il lavoratore renitente al vaccino, una temporanea impossibilità di rendere la prestazione lavorativa in sicurezza, con conseguente allontanamento dal lavoro senza retribuzione. Salva la possibilità del lavoro da remoto (o l’assegnazione a mansioni che allo stesso modo minimizzino i rischi), e salva la sussistenza di situazioni di impossibilità a vaccinarsi per regioni medicalmente accertate.
Ma, per prendere provvedimenti (quali che siano) nei confronti del dipendente renitente, bisogna accertare che gli sia stata offerta la possibilità di vaccinarsi e che l’abbia rifiutata. E a questo proposito è arrivata nei giorni scorsi una presa di posizione del Garante privacy, che preclude al datore di lavoro la possibilità di chiedere (direttamente) al lavoratore informazioni sul suo stato vaccinale, essendo riservato al medico competente il trattamento dei dati sanitari.
Al netto delle critiche rivolte al Garante di anteporre la tutela della riservatezza a quella della salute, questo intervento non giustifica né tantomeno impone l’inerzia del datore di lavoro, che ben può attivarsi perché il medico competente ponga in essere tutte le iniziative necessarie per richiedere la vaccinazione come requisito per lavorare in sicurezza, valutando l’inidoneità al lavoro (ovvero l’idoneità con prescrizioni) di chi non vi si sottopone. Per il renitente al vaccino, peraltro, oltre alla possibile sospensione senza retribuzione, potrebbe anche, come riportato in questi giorni dagli organi di stampa, esserci l’esclusione del risarcimento Inail per l’eventuale contagio sul luogo di lavoro, imputabile a un suo comportamento volontario.