La rilevanza ormai globale della problematica PFAS, con particolare riferimento ai siti contaminati, è occasione di forte impulso a livello pre-regolamentare, per l’adozione di politiche ispirate ad un uso “essenziale” di PFAS, al fine di ridurre il loro impatto sull’ambiente e salute. Quanto si sta elaborando sia in ambito di legislazione Ambientale che di Sostanze Chimiche, tiene sempre più conto di valutazioni tossicologiche ispirate a valori guida per la salute umana più conservativi anche in chiave di esposizione associata a più composti. Il caso “PFAS Veneto” risulta peculiare per la presenza sul territorio sia di produttori che di utilizzatori di PFAS e richiede per la complessità e valore del territorio uno sforzo congiunto di conoscenza e di valutazione prospettica. La società civile è chiamata ad avere una parte attiva in un contesto di trasparenza, indipendenza, e autorevolezza scientifica. Il rischio è quello di non guadagnare sia in salute che in competitività commerciale. (Nell’immagine a fianco il ciclo dei PFAS illustrato dal Dipartimento per la Qualità dell’ Ambiente del Michigan – USA)
Premessa
Il dibattito sui PFAS si arricchisce di alcuni elementi utili a capire la messa a punto di una efficace strategia per ridurre l’esposizione a PFAS di interesse tossicologico nei gruppi esposti al loro rilascio ambientale. In primis, la recente pubblicazione delle linee guida aggiornate per quanto riguarda la Valutazione di impatto sanitario, laddove si ricorda la necessità di inventariare e quantificare i rilasci ambientali da tutte le sorgenti di emissione che insistono su un determinato territorio, e verificare in che modo gli individui possano risultare esposti in maniera cumulativa (più PFAS che esercitano la stessa azione tossicologica sul medesimo organo bersaglio o end-point tossicologico, vedi – tiroide e tossicità in fase di sviluppo embrionale) e in maniera aggregata (esposizione dell’individuo attraverso differenti vie, respiratoria, cutanea, per ingestione: acqua, alimenti, polvere, suolo). In questo, le linee guida definiscono in maniera più netta il ruolo dell’esposizione indiretta tramite l’alimento prodotto e consumato in loco. Non si può effettuare una VIS credibile, se non si conoscono e si caratterizzano le fonti di produzione, utilizzo, rilascio ambientale dei PFAS, gli usi delle risorse ambientali connesse alla produzione primaria, i fattori di trasferimento dall’ambiente alla risorsa alimentare, e gli stili di vita dei gruppi di famiglie che vivono nelle aree impattate.
Tale considerazione sembra trovare puntuale riscontro nell’ultimo bollettino sul biomonitoraggio dei PFAS emanato dalla Regione Veneto il 14 giugno scorso, laddove, per spiegare le differenze significative tra i carichi corporei di PFOA osservati nel sangue degli abitanti della zona rossa settore A vs settore B si prende in considerazione la esposizione a non meglio precisati “fattori ambientali” , laddove si ritiene l’assunzione tramite l’acqua potabile sostanzialmente equivalente da quando sono stati implementati i sistemi di filtraggio in grado di abbattere la contaminazione. (figura 1 – Determinanti di salute e benessere in una popolazione: tratto da Linee Guida per la VIS, 2019)
In secondo, la condivisione da parte di ARPA Veneto sul suo portale, di tutti i dati e relazioni relative al monitoraggio dei PFAS nei corpi idrici superficiali nella falda e acqua potabile, nei percolati delle discariche e negli scarichi di aziende. Dall’esame della documentazione prodotta sulle acque superficiali, si evince una importante variazione su base stagionale della concentrazione dei PFAS presenti, quale conseguenza della ridotta portata dei corpi idrici riceventi i reflui dei depuratori civili e industriali. Inoltre, appare evidente la presenza di elevate concentrazioni di singoli PFAS in determinate aree, non sempre riconducibili esclusivamente alla pressione dello storico stabilimento di produzione dei PFAS. In tale senso, il numero e la caratterizzazione degli scarichi industriali effettuata con controlli ufficiali appare quantomeno non sufficiente rispetto a tutte le potenziali attività di utilizzo dei PFAS e precursori del PFOA nei vari settori manufatturieri presenti sul territorio anche alla luce. dell’estensione della contaminazione anche a decine di chilometri di distanza dallo stabilimento Miteni.
Le prime implicazioni su salute e alimentazione: i fattori di incertezza nella valutazione e gestione del rischio
Ne deriva che l’utilizzo della risorsa idrica superficiale per pratiche di irrigazione dei campi a scopo alimentare nei mesi di siccità, può determinare una più elevata contaminazione delle aree agricole e un trasferimento più rilevante della contaminazione alla derrata alimentare, in base alle caratteristiche dei terreni, alle tecniche di irrigazione/coltivazione e alla tipologia di alimento prodotto. Da un punto di vista ambientale, l’utilizzo agronomico di acque inquinate in terreni caratterizzati da elevata permeabilità, può contribuire alla diffusione della contaminazione nelle falde, allargando la zona storica legata all’impianto di produzione dei PFAS, già nota e studiata negli anni ’80 per l’inquinamento da Trifluralin – un pesticida fluorurato, con la colorazione gialla delle acque dei laghetti di Creazzo (il ricciolo della falda sotto Miteni che piega a Nord Est verso Vicenza).
Da non sottovalutare la presenza nell’aria di fluoro-telomeri e polimeri, in grado di rilasciare nell’ambiente in maniera più estesa progressivamente PFAS a media-corta catena quali monomeri, di interesse tossicologico, ad esempio attraverso le precipitazioni meteoriche.
In questo, si ritiene che la riserva ambientale di PFOA, dovuta ai precursori, sia molto più rilevante rispetto a quella del PFOS: infatti le concentrazioni ambientali a livello globale del PFOA non sembrano seguire la netta riduzione osservata per quelle del PFOS, a partire dall’effettiva sospensione della loro produzione da parte dei più importanti gruppi chimici. (figura 2 – Andamento della falda idrica sotto Miteni – Andamento della falda idrica sotto Miteni)
Nel frattempo, sono stati resi disponibili dagli epidemiologi (alcuni già conosciuti in Veneto per la loro partecipazione “attiva” ad attività di valutazione di rischio) i tempi di dimezzamento del PFOA nel sangue umano, in un gruppo di persone esposto in massima parte tramite l’acqua potabile in una comunità, in Svezia, sotto impatto delle schiume anti-incendio utilizzate nel vicino aereoporto. In tale situazione, a differenza degli studi condotti su gruppi di lavoratori professionalmente esposti, i risultati sembrano assai trasferibili al caso Veneto sotto l’ipotesi che il contributo all’esposizione sia in massima parte determinato dall’assunzione alimentare della risorsa idrica. Nel caso svedese, gli epidemiologi , sulla base dei dati di biomonitoraggio, stimano il 26% di diminuzione in media per anno della dose interna di PFOA, corrrispondente ad un tempo di dimezzamento di 2,7 anni, una volta abbattuta la causa di esposizione, attraverso l’adozione di sistemi efficaci di filtraggio.
A distanza di più di 3 anni dalla adozione e implementazione di sistemi di filtraggio efficaci ad abbattere la concentrazione di PFOA a livello di rete acquedottistica, si potrebbe ritenere matura una valutazione della efficacia delle misure di prevenzione primaria, fondamentalmente da verificare in base ai seguenti indicatori:
- Effettivo e documentato abbattimento del PFOA nelle acque uso idro-potabile
- Attesa diminuzione dei livelli di PFOA nella popolazione esposta – quantomeno a livello aggregato, ad esempio confrontando i dati di biomonitoraggio nelle stesse classi di età residenti negli stessi ambiti territoriali, dal 2016 in poi,e cercando di apprezzare i trend temporali.
- Progressiva diminuzione dell’incidenza di alcune malattie associate ai PFAS.
I fattori di incertezza nella valutazione e gestione del rischio.
I dati aggiornati a giugno 2019 della campagna di biomonitoraggio tuttavia non sono dirimenti nell’evidenziare che le concentrazioni ematiche di PFOA siano in effettivo e statisticamente significativo calo secondo le evidenze tossicocinetiche svedesi. Il cambio in corso d’opera dei laboratori deputati al biomonitoraggio (ricordiamo che in prima fase era stato incaricato delle analisi l’Istituto Superiore di Sanità, che opera nell’ambito di una rete europea intercalibrata di Biomonitoraggio Umano-HBM4EU), conferisce ai dati raccolti una incertezza analitica che rende difficile la verifica degli andamenti temporali, in quanto i dati sono provenienti da laboratori differenti.
L’effettiva riduzione della cosiddetta dose interna si dovrebbe anche riflettere sulla diminuzione dell’incidenza di certe patologie. Probabilmente l’attenzione va posta non tanto sull’ipercolesterolemia (la curva dose/risposta raggiunge un plateau già a valori ematici di PFOA ai 40 ng/mL), quanto su effetti che si verificano ad esposizioni più elevate (es. interferenza con gli ormoni tiroidei), laddove sarebbero più facilmente apprezzabili le minori conseguenze sanitarie conseguenti ad una progressiva riduzione dell’esposizione a PFOA.
Vista la dimostrata e ottimamente documentata riduzione della contaminazione da PFOA nella rete acquedottistica, a fronte di una non evidente riduzione dei carichi corporei, a scopo cautelativo sorge la necessità di verificare se esistano altre sorgenti di esposizione a PFAS oltre all’acqua potabile.
Come ricordato all’inizio, nel commentare l’ultimo bollettino di biomonitoraggio, si iniziano a prendere in considerazioni oltre all’acqua, non meglio specificati fattori ambientali, ma quali?
Mancando la verifica della effettiva riduzione della dose interna quale conseguenza della messa in sicurezza della filiera idro-potabile, la proposizione di protocolli terapeutici per ridurre il carico corporeo (quali plasmaferesi e trattamento con colestiramina) potrebbero rivestire un significato negativo presso l’opinione pubblica, in quanto espressione di situazioni non perfettamente sotto controllo dal punto della prevenzione primaria. In letteratura, nei vari casi di esposizione a PFAS di gruppi di popolazione, il ricorso alla plasmaferesi o all’utilizzo di colestiramina non risulta essere stato “validato” da parte dei Comitati Etici – vedi Caso C8 in Virginia – Ohio. Risultano altresì state prescritte le statine in quei casi di ipercolesterolemia elevata (> 240 mg/ dL per Colesterolo Totale).
Il Veneto non è assimilabile allo studio C8
La presenza sul territorio di una industria di produzione PFAS, e di numerose attività manufatturiere grandi, medie e piccole che utilizzano PFAS , e che insistono sullo stesso territorio, e su corpi idrici ad utilizzo diversificato, oltre alle discariche, unitamente alle storiche pratiche agronomiche di utilizzo di fanghi e ammendanti compostati misti/da fanghi non rende il caso Veneto assimilabile, per complessità, al famoso studio C8, che oggi costituisce il paradigma per le indagini epidemiologiche, e la cui relativa semplicità, ha permesso una gestione dello screening sanitario con un alto indice di gradimento da parte della popolazione esposta. Nello studio C8 è stato relativamente semplice associare la contaminazione ambientale/alimentare all’industria di produzione del PFOA.
I dati resi pubblici da ARPA Veneto specie in riferimento alle acque superficiali (su cui insistono gli carichi dei depuratori civili ed industriali, nonché del famoso collettore A.RI.CA), suggeriscono la presenza di più immissioni (non solo Miteni). In tali immissioni, probabilmente è da attenderci la presenza delle sostanze correlate al PFOA, in grado di liberarlo come monomero in seguito a degradazione ambientale, in seguito ai procedimenti di ossidazione di tali reflui. Questi riscontri sono stati ampiamente descritti a Bologna, in un convegno ECM tenutosi presso la sede del CNR a fine maggio a cui hanno partecipato enti di controllo veneti e gestori delle acque di primaria importanza per il controllo analitico dei PFAS.
Quanto sopra rappresentato spiegherebbe meglio anche l’estensione della piuma di contaminazione PFAS verso sud, piuma che potrebbe anche essere stata alimentata dall’utilizzo delle acque superficiali a scopo irriguo, in terreni agricoli non dotati di elevata permeabilità. Basti pensare ai fabbisogni idrici del mais, laddove non è stata ancora applicata una irrigazione goccia a goccia.
A questo punto, viste le riportate variazioni nella portata dei corpi idrici interessati, in base ai periodi siccitosi, è ragionevole attendersi che le concentrazioni di PFOA e suoi precursori, possano avere un differente impatto sulla sicurezza alimentare, in base al periodo e alle modalità delle pratiche agronomiche zootecniche, laddove l’utilizzo della risorsa acqua a fini agronomici risulta incomprimibile, anche nei periodi siccitosi. Sono questi forse i fattori ambientali che spiegano le differenze tra zona A e B nel biomobitoraggio? Purtroppo non possiamo attenderci indicazioni risolutive dal piano di campionamento alimenti 2017 – ancora non reso pubblico insieme alla valutazione da parte di EFSA. Questo, sia per la rappresentatività del campionamento rispetto alle sorgenti di contaminazione, alle pratiche agricole, agli andamenti climatici stagionali, sia per quanto riguarda i metodi di analisi utilizzati per la produzione dei dati, con eccezione di quelli inerenti la risorsa idro-potabile.
Importanti industrie tessili manufatturiere con mercati internazionali pubblicano sui loro siti l’impegno a contenere l’utilizzo dei PFAS nei propri processi produttivi, in accordo con ONG di primaria rilevanza (vedi http://www.benettongroup.com/sustainability/) (https://www.filatidive.it/pdf/RAPPORTO-sostenibilita-Di-Ve.pdf) (https://www.oecd.org/chemicalsafety/portal-perfluorinated-chemicals/riskreduction/voluntary-risk-reduction-measures-by-industry.pdf), elencando nello specifico i composti utilizzati e le quantità. Una analoga iniziativa implementata e condivisa a livello di territorio permetterebbe di fare un bilancio di massa appropriato al caso e di orientare le ricerche su quanto utilizzato.
In particolare, la presenza di precursori del PFOA quali fluoropolimeri/telomeri non va sottovalutato, anche quale possibile rilascio da sistemi di depurazione degli scarichi in cui si utilizzano temperature in grado di facilitare il passaggio dei PFAS dalla fase liquida a quella gassosa. E una volta in aria, la loro ricaduta potrebbe essere maggiormente vasta.
Sotto, rappresentazione geografica delle sole attività manufatturiere di grandi dimensioni che utilizzano PFAS; da sinistra in alto, in senso orario: industria della carta, della concia, della galvanica, e tessile. Immagine tratta dal rapporto ISPRA 305/2019
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