Editoriale di Aldo Grasselli. Succedono cose nel mondo che non vediamo, ma che ci riguardano. Le maggiori economie mondali si sfidano e tutta l’economia europea ne soffre. L’Italia soffre più di altre nazioni e cerca nel nazionalismo la risposta ai suoi guai. Siamo davanti alla nuova globalizzazione tecnologica e cerchiamo rifugio nel reddito minimo garantito, mentre le altre nazioni investono in infrastrutture per rendere più veloci gli scambi noi ci balocchiamo sulla Tav.
Siamo in recessione e non lo vogliamo ammettere. Mario Draghi, Governatore della BCE ancora per poco, ha dichiarato che «le nazioni che non sanno contenere il debito pubblico perdono la loro sovranità», tradotto per noi italiani ha detto: se l’Italia non contiene la spesa pubblica le prossime leggi di bilancio le scriveranno di nuovo a Bruxelles.
Non tira una buona aria e per salvare la nostra anemica economia dalla mazzata mortale dell’aumento dell’IVA, ci si possono aspettare solo interventi su sanita e pensioni (Rapporto dell’Ufficio parlamentare di Bilancio – Rapporto 2019).
Detto tutto questo, non si può certo stare allegri. L’Italia si sta impoverendo.
Anche tra dirigenti medici e veterinari non si riesce a parlare che di declino.
La compiaciuta denuncia dell’apocalisse incombente ha caratterizzato il linguaggio dei sindacati, degli ordini e dei singoli professionisti.
Il piano inclinato di una moderata sventura (che i più avveduti possono prefigurare con la calma dei saggi e imputarla al resto del mondo) sta diventando un tema popolare, un argomento da convegni in cui rammaricarsi dell’inerzia di altri, in tutti i campi della vita sociale, politica ed economica.
In realtà ci e solo più congeniale un gioco di difesa, diamo il meglio in presenza di nemici (ci compattiamo) o di fronte ad emergenze (ci prodighiamo e ci esaltiamo). Non ci piace il gioco d’attacco e, se possiamo, rallentiamo il flusso degli eventi. Semplicemente perché temiamo il futuro e il cambiamento.
Come gli anziani (tali ormai siamo come popolazione e come modello di professione) viviamo da anni, da moltissimi anni di nostalgie per il mitico passato, per i tempi in cui tutto era meglio.
Oggi, pero, difendere le “buone piccole cose” e un atteggiamento crepuscolare un po’ troppo datato, e sperare nel ritorno della preistoria. Non ci piace l’esposizione all’invenzione. Non abbiamo fame e non vogliamo uscire dalle nostre tane. Chi ha fame alimenta branchi che esprimono la loro rabbia in modi variamente violenti e distruttivi. Siamo in mezzo a una “grande transizione”. Per essere assolti nel nostro privato potrebbe bastare concordare unanimemente che “tutto sta franando per colpa di quelli la”. Sul piano storico le cose pero vanno in modo diverso. La politica di oggi, come quella di ieri, che va alla ricerca semplificatrice del capro espiatorio non costruisce «magnifiche sorti e progressive», come cantava Leopardi.
Oggi il tema epocale degli immigrati – che certamente deve essere affrontato senza scappatoie da tutti i Paesi UE e non solo dall’Italia – è soprattutto uno strumento di propaganda per invertire le priorità e non affrontare, in modo radicale, le patologie strutturali interne alla società. Patologie cha vanno sotto il nome di Mafia, ‘Ndrangheta, Camorra, corruzione, evasione fiscale, la cui rimozione toccherebbe troppi interessi parassitari.
A questo si deve aggiungere la crisi e la sovversione delle identità politiche nazionali, una Sinistra amata dai benestanti e una Destra animata dai nullatenenti, uno sconvolgimento che libera nuovi scenari. Una morte dei partiti storici e la nascita di aggregazioni fluide, nelle quali è comunque necessario trovare un punto di convergenza su temi basilari quali la tutela del diritto della salute, dei diritti dei lavoratori, del welfare. Nel 2018 le morti sul lavoro sono aumentate del 9% rispetto al 2017, più di tre morti al giorno di cui nessuno si interessa più nei media. Per non parlare del lavoro nero senza diritti che è popolato prevalentemente da quegli immigrati che vorremmo respingere con tanta energia. Nel mondo sindacale non si riescono ad accettare declini. I medici che hanno vissuto a lungo una condizione di privilegio sociale, ammantati da un’aura di intoccabilità e prestigio, sono più in crisi di noi veterinari che abbiamo sempre dovuto affrontare salite.
Accusare sbrigativamente la politica sanitaria di Regioni e Governo non assolve da consociativismi storici, da inerzie opportunistiche e da molti malcelati interessi privati. Semplificare per non impegnarsi con onestà intellettuale in uno studio serio della complessità presente e della complessità incombente è un errore che si paga. Anche i veterinari, in realtà, staranno in mezzo al guado di un fiume in piena sino a quando si stupiranno – essi stessi – del fatto che la prevenzione sia la Cenerentola della sanità (abbiamo perfino adottato una narrazione fiabesca) senza mutare atteggiamento. Oserei dire che la “piccola fiammiferaia” che tanto ci aveva commossi da bambini ora siamo noi, e in qualche modo più che prestigio chiediamo pieta, chiediamo indulgenza, tutto sommato vogliamo solo ancora un po’ di tempo. Ma il tempo e poco. Forse per molti di noi e una fortuna che manchi poco all’alba del congedo pensionistico. Ma per la medicina veterinaria pubblica e per il Paese si sta facendo tardi.
Tutto l’occidente sta accettando la rivoluzione tecnologica in atto, noi non vogliamo nemmeno prenderne atto, non ne discutiamo e non ce ne appropriamo. I nostro gesti, forse anche i nostri processi mentali, le nostre priorità, sicuramente le modalità con le quali si realizzano obiettivi di salute a cominciare dalla prevenzione sono e saranno influenzati e trasformati dalla rivoluzione tecnologica, il cui portato nel nostro campo arriverà attraverso l’emanazione a flusso continuo di regolamenti, influenzati a loro volta dalle innovazioni tecnologiche e dalle relazioni dell’economia globale, che ci metteranno a dura prova. L’Italia e forse uno dei Paesi più conservatori, in fin dei conti affezionato alla sua tanto odiata burocrazia. Si può cercare di rimanere il più a lungo possibile da una parte della clessidra, ma prima o poi si deve passare dall’altra parte. Come e quanto prima e un fattore di successo.
La smaterializzazione, la realtà aumentata, vanno insieme alla digitalizzazione delle nostre abitudini.
Nulla nel mondo del futuro e più soggettivo, a meno che non parliamo di arti o di empatia. La medicina del futuro si baserà su una potentissima integrazione di informazioni, linee guida, algoritmi, procedure standard, con lo scopo di massimizzare il risultato e di proteggere il singolo sanitario dalle rivalse legali.
Oggi esistono i dati e gli algoritmi che li elaborano per ogni necessita. E i dati sono il potere. I cloud, gli archivi, sono le vere banche di domani. Ormai ciascuno di noi paga qualcuno che archivi i tuoi dati, per averli sempre a disposizione.
Il SSN paga il suo personale per studiare le persone, le popolazioni, i rischi, le patologie, ma poi quasi sempre non può disporre di quella immane massa di informazioni perché non sono disponibili e aggregabili, non sono in cloud accessibili da remoto, ma giacciono in archivi regionali o aziendali non dialoganti tra loro. Un registro tumori nazionale e ancora un obiettivo lunare. Facebook fa la profilazione del suo miliardo di utenti per offrire al mercato selezione di interessi e caratteristiche. Il SSN non riesce a profilare le cartelle cliniche dei suoi 60 milioni di cittadini per fare una analisi dei fabbisogni di prevenzione e cura, una pianificazione delle strategie, una allocazione sensata delle risorse, in funzione delle domande di salute attese.
Nel nostro settore e lo stesso. Siamo forse più liberi perché i nostri “pazienti” animali o industriali non hanno grandi problemi di privacy e consenso informato, anche se hanno interesse a tutelare le proprietà tecnologiche e industriali.
La sfida sta nella raccolta e gestione delle informazioni, dallo stato di salute della fauna selvatica lungo tutte le filiere zootecniche e alimentari sino e alla coabitazione uomo animale. Se vogliamo ancora una medicina veterinaria epica siamo obsoleti e irrecuperabili.
L’innovazione sta creando le condizioni per una nuova medicina e per una nuova medicina veterinaria. E la velocità e in aumento esponenziale.
E un nuovo continente, con nuove materie prime e nuove energie. E come ogni nuovo continente avrà i suoi conquistadores. Se non vuoi essere conquistato e reso schiavo devi quanto meno avere la forza di stare al passo degli altri.
I computer sono diventati telefoni smart, il mouse non serve quasi più, si usa il dito. Tutto deve essere semplice anche se complesso, ma non complicato.
Quindi escono di scena i mediatori, i sacerdoti delle professioni. E in atto una ridistribuzione del potere, anche di quello dei professionisti della salute.
Per la una medicina veterinaria futura occorrono individualismi irregolari, capaci di inventare anomalie più efficienti. Capaci di fare, pensare e governare quello che altri non vedono o temono di vedere. Abbiamo addirittura “paure obsolete”, continuiamo a leggere il mondo guardando nel fondo di caffè del nostro piccolo circolo quotidiano mentre il mondo nuovo cresce sopra di noi. Stiamo ancora battendoci per un maggior efficientamento dei servizi, ciò significa fare meglio e con minori risorse quello che si sta già facendo.
Ma quello che si sta facendo in buona parte nei prossimi anni non servirà più o lo faranno altri più efficienti, cioè, meno cari. Innovazione, significa ben altro. Significa immaginare e realizzare quello che ancora non esiste nel palinsesto del nostro lavoro specialistico. Significa innovare le reti della ricerca, della collaborazione e del sapere.
E questa la sfida tra le professioni che dobbiamo saper vincere.
Avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. I nostri giovani sono chiamati a questo, con il nostro sostegno, e con fiducia nel futuro.