Reparti chiave del più grande ospedale del Veneto, il Policlinico di Padova, obbligati a fermare per 7-10 giorni l’attività chirurgica di elezione perché mancano anestesisti; la Pediatria di Belluno a personale medico ridotto per l’impossibilità di trovare specialisti; gli ortopedici costretti, nei momenti di grande affollamento dei Pronto Soccorso, a vedere trenta persone a testa, una dopo l’altra. Per non parlare dei medici di famiglia che, secondo una proiezione della Fimmg, sigla di categoria, tra dieci anni saranno 1042 in meno (oggi sono 3200). Latente da tempo, il bubbone della carenza di camici bianchi è esploso sotto gli occhi di tutti: i concorsi vanno deserti, tanti specialisti mancano e altri scappano nel privato, dove lavorano meglio e guadagnano di più, costringendo le Usl a fare i salti mortali, tra professionisti chiamati a gettone e misure-tampone.
«Il vero problema del sistema è che non abbiamo più medici — ha confermato venerdì, in commissione regionale Sanità, il direttore generale di settore, Domenico Mantoan — e il motivo è che lo Stato ha sbagliato la programmazione. Da dieci anni il ministero dell’Istruzione l’ha basata non sul fabbisogno espresso dalle Regioni ma sulle logiche dell’Università e il risultato è che non troviamo specialisti, soprattutto per gli ospedali periferici. E allora qualche reparto verrà chiuso per carenza di ortopedici, cardiologi,ginecologi. Abbiamo un contratto della dipendenza scritto con i criteri degli anni ‘70 — ha incalzato il manager — e quindi non possiamo dare un euro in più al medico che accetta di andare a lavorare a Pieve di Cadore, per esempio. Non c’è la possibilità di sottoscrivere un accordo regionale diversificato. E intanto il privato accreditato ci porta via gli specialisti, che paga di più, anche tre volte tanto». Per correre ai ripari, Palazzo Balbi ha chiesto di inserire la contrattazione regionale nella legge delega e di poter assumere i neolaureati in Medicina, facendoli specializzare direttamente durante la pratica in ospedale.
Ma di quanti camici bianchi esattamente necessita il Veneto? Nella richiesta al Miur per il triennio 2018/2020, la giunta Zaia ha notificato un fabbisogno di 564 borse di studio statali per gli specializzandi all’anno, per un totale di 1692. A queste vanno aggiunte le 90 all’anno pagate dalla Regione stessa, che nel triennio fanno 270 e quindi il totale complessivo sale a 1962, leggermente ritoccato al rialzo da qualche altra finanziata da enti locali. Tra gli specialisti più richiesti gli anestesisti (171 nei tre anni), i pediatri (150), i chirurghi generali (120), gli internisti (105), i cardiologi (75), e poi ginecologi, geriatri, igienisti, ortopedici, medici di Pronto Soccorso, radiologi e psichiatri (60 per specialità).
«Dal computo totale mancano almeno 150 borse di studio all’anno — osserva Adriano Benazzato, segretario regionale dell’Anaao Assomed, sindacato degli ospedalieri — così come in tutta Italia la carenza è di circa 3mila. A fronte delle 6934 borse di studio messe a disposizione per il 2018 e aumentate rispetto alle 6675 dell’anno scorso, ci sono 10mila laureati. Il che significa che forse non è il ministero ad aver sbagliato la programmazione ma sono le Regioni a comunicare richieste sbagliate. Che tipo di fabbisogno ha calcolato il Veneto? Giocare a scaricabarile non serve a niente, soprattutto perché i nuovi specializzandi saranno in corsia dopo il 2023 e nel frattempo? La nostra proposta — incalza Benazzato — è di permettere agli specializzandi dell’ultimo anno di partecipare ai concorsi. Non puoi sbattere in sala operatoria o in reparto un neolaureato».
Esiste poi un’altra opzione, già adottata da diversi ospedali e consentita dalla legge. Un medico in età da pensione può lavorare un altro anno però senza retribuzione, solo con un rimborso spese e con l’opportunità di esercitare la libera professione. Ma la carenza di camici bianchi è aggravata dalla fuga nel privato, che negli ultimi sei mesi ha visto il sistema pubblico veneto perderne 60. «E il motivo non sono solo i soldi — chiarisce Benazzato — ma anche l’aumento dell’età media a 50-55 anni che rende più faticose guardie, pronte disponibilità festive e notturne, in crescita; carichi di lavoro insostenibili in violazione della legge sui riposi; la demotivazione e l’assenza di prospettive di carriera; l’utilizzo eccessivo e improprio dei procedimenti disciplinari; l’escalation di aggressioni e denunce da parte dei pazienti».
MEDICI IN TRINCEA
Sei su dieci quotidianamente vittime di aggressioni da parte
di pazienti e familiari. «Che inferno, difficile lavorare così»
E’ il 30 dicembre 2017 quando, all’ospedale De Gironcoli di Conegliano, una guardia medica viene aggredita e colpita da una coppia che cerca di sfondare la porta dell’ambulatorio. Due settimane dopo la dottoressa, trentenne, si dimette perché lo choc subìto non le consente più di lavorare con serenità e nemmeno di dormire. La stessa paura provata il 19 giugno scorso dai colleghi del Pronto Soccorso di Padova, minacciati con violenza da un cinese in crisi psicotica, che scarica la sua rabbia scardinando la porta dell’area rossa e poi picchiando i due poliziotti riusciti a bloccarlo. E che dire del camice bianco preso a pugni, lo scorso febbraio all’ospedale di Legnago, da un paziente che non voleva affrontare la semplice misurazione della pressione prima di essere dimesso? Succede tutti i giorni ai veri medici in prima linea, che non sono i perfetti «E.R.» senza un capello fuori posto alla George Clooney ma dottori quotidianamente in trincea, a combattere la malattia e pure l’esasperazione e la maleducazione crescente di pazienti e familiari, che sempre più spesso scaricano ansia e frustrazioni aggredendo, insultando, minacciando e picchiando le uniche persone in grado di salvarci la vita.
L’escalation
L’Anaao Assomed, sigla degli ospedalieri, ha per la prima volta inquadrato il fenomeno, distribuendo un questionario a tutti i colleghi in corsia, che nel Veneto sono 9150 (compresi i 600 universitari). Ne è emerso che il 65% è stato vittima, almeno una volta, di aggressioni: di questi, il 66% ha subìto attacchi verbali e il 33% fisici, finiti con una prognosi compresa fra 3 e 100 giorni. Ma la percentuale del 65% sale all’82% per i dottori del Pronto Soccorso, il reparto più a rischio insieme a Psichiatria, Sert, Suem 118, Medicina interna, Chirurgia generale, Ginecologia, Pediatria, Pneumologia, Malattie infettive, Anestesia e Rianimazione. Eppure meno del 10% dei medici si rivolge alla legge: le denunce sono 500/600 all’anno, contro le 1300 presentate dai malati per presunti errori medici. «Denunciare il paziente è contrario all’etica professionale — spiega Pasquale Santoriello, chirurgo ortopedico e segretario Anaao all’Usl 2 Marca Trevigiana — perché il rapporto è impari. Faccio questo mestiere da 25 anni e non ho mai vissuto una situazione del genere: siamo in mezzo al fronte. Attaccati a destra dall’utenza e a sinistra dalle nostre aziende, che ci dovrebbero difendere e invece sono insofferenti. Siamo considerati una categoria privilegiata, che guadagna un sacco di soldi: la realtà è un’altra. Siamo in crisi. Negli ospedali c’è un clima da caserma, il primario è sotto ricatto del direttore generale perchè ha un contratto di cinque anni, che ora la Regione sta riducendo a tre. E allora per essere riconfermati i primari vessano e mortificano i collaboratori, li costringono a stimbrare il cartellino al termine dell’orario indicato per legge e a restare al lavoro. Così si coprono fino a 14 ore al giorno, per sopperire al sottorganico e in violazione alla normativa europea che ne impone 40 settimanali, comprese le chiamate di reperibilità. Un fenomeno molto frequente ma non documentabile — aggiunge Santoriello — perchè nessuno ammette di aver stimbrato per paura di ritorsioni. Puoi essere demansionato: per esempio un chirurgo rischia di non operare più o di farlo la sera invece della mattina, ad altri colleghi tolgono le ferie all’ultimo momento».
Le vessazioni
Due mesi fa a una dottoressa è stato negato il permesso per malattia del figlio, colpito da bronchiolite. Il pediatra ha prescritto tre giorni di prognosi, ma lei è stata messa in turno, altrimenti rischiava il declassamento degli scatti di anzianità. Un ex primario di Anestesia di un ospedale trevigiano dalla sera alla mattina ha perso il Dipartimento perchè ha ricevuto l’ordine di attivare il parto in analgesia e ha risposto che sarebbero serviti altri due anestesisti. Il dg ha detto no, usa le risorse che hai, e alle perplessità del primario ha risposto togliendogli la direzione del reparto. «In un’atmosfera simile il rapporto medico-paziente è messo a dura prova — avverte Santoriello — il superlavoro ci impedisce di dedicare alla gente il giusto tempo. E le disposizioni interne non aiutano: il nuovo piano di lavoro impone una gastroscopia ogni 20 minuti, quando le linee guida ne prevedono almeno 30; un ginecologo di Treviso è rimasto al lavoro 20 giorni di seguito, senza riposi nemmeno di domenica; gli anestesisti per la difficoltà estiva di essere sostituiti stanno coprendo in tanti ospedali 60 ore a settimana. Uno di loro, ancora in sala operatoria alle dieci di sera, ha ammesso: io, se fossi un paziente, avrei difficoltà a farmi operare da noi. Condizioni che aumentano le possibilità di errore, ne va della sicurezza del paziente e del medico, gli utenti si arrabbiano e la tensione cresce, impedendoci di lavorare al meglio».
La rabbia dei pazienti
I motivi del malessere dei malati sono dunque: la visita sbrigativa per insufficienza di operatori, percepita come prestazione affrettata e grave fonte di stress per il medico; le attese, considerate sempre eccessive da chi ha male e pretende di essere visitato subito; la diffidenza. Oggi i pazienti vogliono capire e avere voce in capitolo sulle cure, mettendo in discussione il dottore. «In passato erano passivi — conferma Giovanni Leoni, presidente della Cimo Veneto e chirurgo generale a Mestre — ora sono collaborativi, ma anche nel senso meno positivo del termine. Oggi ci sono il professor Google e i Social, che hanno introdotto una nuova mentalità, spesso difficile da scardinare: se un concetto viene ripetuto all’infinito da un certo numero di persone, è la verità. E ciò crea aspettative non realistiche, situazioni contingenti che per ignoranza o malafede usano la salute per scopi estranei alla sanità, magari politici. Generano scelte di pancia e conflittualità». Leoni a inizio carriera ha lavorato in un Pronto soccorso: «Nessuno può capire cosa significhi fare il medico se non ha mai prestato servizio nell’urgenza-emergenza. L’attesa dev’essere commisurata alla necessità, se uno ha male e aspetta troppo si agita. E quando la gente si esaspera mette le mani addosso all’operatore, che di conseguenza sotto pressione fa male il suo mestiere. Ricordo una mattina lo scontro tra una famigliola e un tossicodipendente, che al culmine della rabbia si è strappato la flebo dal braccio insanguinando il reparto e mettendolo a ferro e a fuoco, finchè è stato immobilizzato dalla polizia. Ma ricordo anche i Natali e i Capodanni festeggiati al Pronto Soccorso con i panettoni portati dalla polizia stradale — rievoca Leoni — come noi sempre in prima linea. Il rapporto diretto con chi soffre è alla base della medicina ma non è facile sviluppare empatia col paziente e nello stesso tempo bloccare l’emotività, per restare lucidi e professionali. Dobbiamo mantenere i nervi saldi, ma se non siamo messi nelle migliori condizioni di lavoro, per carenze organizzative e di personale, diventa difficile».
Le pretese
E’ d’accordo Massimiliano Zaramella, chirurgo al San Bortolo di Vicenza e presidente di Obiettivo Ippocrate, associazione nata proprio per recuperare l’alleanza terapeutica medico-paziente: «Il fenomeno delle aggressioni è in crescita da 15 anni, le carenze organizzative hanno minato la fiducia tra dottore, ammalato e familiari. Minato da un punto di vista culturale, si è perso il concetto chiave che il diritto sancito dalla legge è alle migliori cure, non alla salute. E invece è stato fatto passare un messaggio miracolistico, di onnipotenza, che raffigura il camice bianco come un guaritore, uno stregone quasi. E quindi l’idea della morte o della terapia che non funziona è respinto a priori. E poi è cambiato il principio di salute: una volta significava assenza di malattia, adesso allarga il ruolo del medico a una componente sociale, familiare e ambientale. E’ un compito più complesso — incalza Zaramella — non basta più trattare la malattia, spesso la componente umana e sociale di un paziente, magari da solo e non in grado di tornare a casa benché non più nella fase acuta, è prioritaria. E allora per recuperare l’alleanza terapeutica bisogna trovare lo spazio per parlare. Se invece sale l’atmosfera di diffidenza e conflittualità, le storie a lieto fine saranno sempre meno».
Le tutele
Ma chi difende i medici? I sindacati hanno chiesto vigilantes, telecamere, allarmi, porte blindate e l’assessore alla Sanità, Luca Coletto, ha promesso una delibera che vada in questa direzione. Intanto la giunta Zaia ne ha approvata un’altra che tali misure di sicurezza prevede già per le guardie mediche, più a rischio perchè all’opera di notte, da sole e in ambulatori isolati. L’Usl 4 di San Donà ha dotato i dottori di fischietti, mentre all’Usl 1 di Belluno è partito un corso di autodifesa.
Il Corriere del Veneto – 22 luglio 2018